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Le funzioni del dolore

Seconda parte del progetto “L’altra faccia del dolore”

Dolore fisico e sofferenza emotiva

Il dolore fisico è più drammatico rispetto a quello emotivo perché è concreto, oggettivo, in un certo senso misurabile. Si vede. Mi fa male la testa, lo stomaco, un ginocchio: vado dal dottore e mi prescrive una cura. Del dolore emotivo, invece, spesso ci si vergogna perché lo si percepisce come una debolezza da nascondere, si preferisce non parlarne e andare avanti “come se nulla fosse”. Possiamo tenere sotto controllo entrambi i dolori finché non raggiungono un certo livello. Di fronte a un corpo che si “rompe” irrimediabilmente, o a una sofferenza interiore a tal punto intensa da mandare in tilt la mente, l’individuo si ritrova in un vicolo cieco.

Si tratta di una presa definitiva da parte del dolore: non c’è più alcuna possibilità di fuga, è un testa a testa estenuante, un guardarsi negli occhi che mette completamente a nudo. Ci si sente smarriti nella propria quotidianità, i vecchi punti di riferimento saltano, l’immagine che si ha di se stessi si adombra. Tutto cambia e non c’è nulla a cui aggrapparsi. Jung definì questa grande sofferenza emotiva “la notte oscura dell’anima”, situazioni di crisi profonda in cui ci si sente sull’orlo dell’abisso, ci si affaccia e non si scorge nient’altro che il vuoto.

Immagine di Valentin Lacoste

Il cambiamento presuppone un moto, che ci sia lo spazio per il nuovo e quando questo spazio sembra mancare, perché occupato da tante cose a cui siamo abituati e a cui non riusciamo a dire addio, ecco che interviene il dolore con la sua forza purificatrice a spazzar via il superfluo. Non sarà piacevole, non sarà gradito, ma risulta necessario.

È quando si perde l’orientamento, quando “ci si perde” che si può ritrovare se stessi e la propria strada. Sono i cambiamenti importanti, anche tragici, che determinano questa possibilità.

I momenti difficili, di qualunque natura siano, portano con loro una grande possibilità, l’opportunità di ampliare la propria prospettiva e di avvicinarsi a una dimensione spesso trascurata come quella interiore e spirituale.

Accettare di compiersi significa accettare la solitudine, il dolore, l’ignoto, connessi alla crescita; significa in qualche modo raggiungere quella trasparenza dello sguardo che permetta di esperire la sofferenza senza necessariamente definirla come “male”, senza mai pensare al male come a una realtà irriducibile, solo nefasta per l’uomo. 

Aldo Carotenuto, Le lacrime del male, Milano, Tascabili Bompiani, 2004, p. 15

Si tratta di un approccio che mette in discussione l’atteggiamento timoroso e stigmatizzante oggi prevalente nei confronti della sofferenza, l’abitudine a etichettare il dolore in quanto brutto, spiacevole e da evitare a tutti i costi. 

Siamo abituati ad assumere pillole per alleviare, narcotizzare, dimenticare qualunque cosa. Non ci si può ammalare, è una vergogna invecchiare, non si tollera alcuna tristezza, si soffoca l’insoddisfazione. Trattiamo la salute, fisica e mentale, come qualcosa da mantenere intatto o da riconquistare, quando l’abbiamo persa.

Immagine di chulmin park

Le funzioni del dolore

Per comprendere che il dolore possa servire a qualcosa, anche a qualcosa di benefico, è necessario prima interrogarsi sul senso che assegniamo alla vita.

La paura di soffrire non protegge l’individuo, ma lo priva dell’energia necessaria per rompere la sua vecchia forma, lo imprigiona e rinsecchisce in vecchi pensieri e abitudini. Gli costruisce un recinto intorno e lo ammonisce che se tenterà di uscirne pagherà con la vita. Ma le sue sono minacce vane perché è sufficiente spingere anche di poco il cancello per scoprire che è aperto e che, fatto un passo fuori, non siamo stati sbranati.

La paura, quando la si guarda negli occhi, abbassa lo sguardo intimidita perché lei sa qualcosa che noi spesso ignoriamo: la sua natura è inconsistente, non è altro che un agglomerato di pensieri, aspettative, idee e convinzioni spesso tramandateci da altri, spesso obsolete. Rappresentano loro il recinto che temiamo di oltrepassare. Ed è così che si avverano nella nostra vita le parole pronunciate da Etty Hillesum: “Le peggiori sofferenze dell’uomo sono quelle che egli teme.”

Non c’è infatti sofferenza più sterile di quella generata da un atteggiamento di rifiuto nei confronti di qualunque cosa possa arrecare dolore. Non mi innamoro perché tanto l’amore non durerà. Non provo a migliorare la mia situazione lavorativa perché è meglio accontentarsi e non rischiare. Non accetto l’invito a quella festa perché so che mi annoierò in mezzo a gente che non conosco. Tanti “non” dettati dalla paura che, se si esce dal recinto del conosciuto, si finirà in bocca al leone. 

Immagine di Sarah Richter

Così, per sfuggire a un supposto dolore, ci condanniamo a provare quello dell’impotenza, della negazione, della sconfitta annunciata. 

Come sostiene lo psichiatra Ronald Laing, esistono due tipi di dolore: i primi sono quelli che fanno parte della vita, difficili da evitare; i secondi, invece, sono quelli che ci procuriamo perché combattiamo strenuamente i primi.

I primi [dolori] sono quelli che ci spettano, come quelli che derivano dalle morti, dalle disgrazie, dagli abbandoni, dalle sfortune della vita. Questi dolori riguardano pochi attimi della nostra esistenza.

I secondi, invece, sono i dolori che derivano dal fatto che passiamo gran parte della vita a combattere i dolori che ci spettano. Questi dolori, per così dire “della mente”, della fuga dai veri dolori della vita, si cronicizzano facilmente e ci rendono artificiali, innaturali, lamentosi. 


Raffaele Morelli, Non siamo nati per soffrire, Milano, Oscar Mondadori, 2015, pp.34-35

Ben altri occhi avremmo se, invece, accogliessimo il dolore come un aspetto interconnesso alla vita che può aiutarci a crescere e a liberarci da tutte le convinzioni e le false aspettative su noi stessi e gli altri.

Roberto Assagioli parlava di quattro funzioni associate al dolore.

1. La funzione del risveglio

La prima è chiamata la funzione del risveglio in quanto il dolore si rivela essere una potente forza di scuotimento in situazioni di passività, pigrizia mentale e morale, assopimento rispetto alle proprie potenzialità.

Il dolore vale a scuotere l’uomo da un passivo adagiamento, dalle comode “routines”, dalla sua fondamentale pigrizia mentale e morale, dal suo ristretto egocentrismo. Il “buon dolore”, nelle sue numerose e svariate forme, lo induce, lo obbliga a “svegliarsi”, a suscitare le proprie energie latenti, a volere metter in valore i suoi “talenti”.

Ilario Assagioli e Roberto Assagioli, Dal dolore alla pace

Come nella famosa parabola dei talenti, il rischio di sotterrare i propri è all’ordine del giorno. L’entusiasmo dell’infanzia si spegne col tempo, per lasciare il posto alla sicurezza che offrono le abitudini, i giudizi, il comune buon senso. Ma una parte di noi si ribella a tutto questo, dapprima con flebili lamenti, e poi, se non le diamo ascolto, urlando di dolore. È un momento prezioso: il momento in cui possiamo aprire gli occhi e accorgerci. Il momento in cui cominciamo a scavare dentro di noi e riportiamo alla luce i talenti che avevamo sepolto.

2. La funzione purificatrice e liberatrice

La seconda è una funzione purificatrice e liberatrice perché libera l’individuo da tutto ciò che lo tiene avvinto come l’attaccamento, gli istinti e le passioni. Grazie a questa funzione, la sofferenza permette di

…svincolare l’uomo da attaccamenti eccessivi a cose o persone; di affrancarlo dalla schiavitù in cui lo tengono i suoi istinti, le sue passioni, i suoi desideri; di impedirgli di commettere nuovi errori e nuove colpe. 

Ilario Assagioli e Roberto Assagioli, Dal dolore alla pace

Il dolore brucia, incenerisce tutto ciò che di vecchio e stantio ci tiene avvinti a una visione limitata di noi stessi. Ci aiuta a liberarci dai lacci del già detto e già visto, degli schemi che abbiamo acquisito, delle reazioni che ci trasformano in bambole caricate a molla. Della libertà l’uomo ha paura, ma è alla libertà che anela da sempre.

3. La funzione di disciplina

La terza è una funzione di disciplina perché induce

l’uomo a disciplinarsi, a dominare le incomposte energie istintive, emotive, mentali che si agitano in lui; a ordinarle ed organizzarle, in modo che esse divengano costruttive e non distruttive; a trasformarle, incanalarle, utilizzarle per attività feconde, e benefiche, per fini elevati ed umanitari. 

Ilario Assagioli e Roberto Assagioli, Dal dolore alla pace

Attraverso il dolore possiamo sviluppare la resilienza, esso ci tempra e rafforza, ci addestra affinché le nostre azioni siano mirate, focalizzate, potenti.

Essere resilienti vuol dire sapersi rialzare quando si è scaraventati a terra; dopo aver patito l’attacco di circostanze avverse, rimbalzare più forti di prima.

Piero Ferrucci, La nuova volontà, Roma, Casa Editrice Astrolabio, 2014, p. 154

4. La funzione di meditazione

La quarta funzione, infine, è di meditazione perché, scrive Assagioli, “il dolore induce, obbliga al raccoglimento, alla riflessione, alla meditazione”.

Esso ha il prezioso e necessario ufficio di richiamarci dalla vita volta all’esterno, dispersa e dissipata, superficiale e materialistica che troppo spesso conduciamo. Il dolore ci scuote, ci fa ‘rientrare in noi stessi’; arresta la nostra corsa affannosa; ci fa volgere lo sguardo al di dentro e verso l’alto. Così noi cominciamo veramente a pensare, a porre a noi stessi i grandi problemi della vita, a cercar di trovarne la giustificazione, di comprenderne il significato, di intuirne lo scopo e la mèta. 

Allora cominciamo a creare il silenzio in noi stessi, a ‘interrogare’, a pregare, a invocare. Allora comincia il colloquio, il ‘dialogo’ interno con un Principio, una Realtà superiore, con la nostra Anima profonda, con Dio. 

Ilario Assagioli e Roberto Assagioli, Dal dolore alla pace

Lontano dal frastuono del mondo, l’uomo può ritrovarsi, riscoprire la via al Sé. Al centro, nel silenzioso raccoglimento della solitudine, si crea uno spazio propizio e vitale, uno spazio vuoto pronto ad accogliere il nuovo.

E poi: si vive tanto, e la vita trabocca di esperienze. Eppure… si porta in se stessi, ovunque con sé, una grande e feconda solitudine. E talvolta, il momento fondamentale di una giornata è la quieta pausa tra due respiri profondi, quel tornare a se stessi in una preghiera di 5 minuti.

Etty Hillesum, Il bene quotidiano. Breviario degli scritti (1941-1942), Milano, San Paolo Edizioni, 2014, p. 17

Quando si rompe la semplicistica correlazione dolore=male e piacere=bene, la sofferenza, lungi dall’essere esaltata, ritrova il suo ruolo principale di guida temporanea alla ricerca di sé. Come sottolinea anche Brenda Shoshanna:

Forse pensiamo che qualcosa di doloroso sia per noi un male e qualcosa di piacevole sia positivo. Non è così. Rischiamo infatti di respingere qualcosa di significativo solo perché all’inizio ci rende inquieti. Rischiamo di rimanere aggrappati a qualcosa di nocivo solo perché ci è familiare. Quando si vive in questo modo, è impossibile capire ciò che è veramente utile.

Brenda Shoshanna, I 7 principi della serenità, Vicenza, Edizioni Il Punto d’Incontro, 2010, p. 63

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Immagine in apertura di Fuu J

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Tag: Last modified: 2 Ottobre 2023