Quarta parte del progetto “L’altra faccia del dolore”
Carl Rogers, padre della terapia centrata sulla persona, nel suo libro Potere Personale, prende spunto da un episodio personale per mettere in evidenza quella che, secondo la sua esperienza di psicologo, è una spinta insita in ognuno di noi: ovvero la spinta a crescere, a “germogliare” nonostante le circostanze possano essere le più avverse.
Ricordo che durante la mia adolescenza conservavamo la nostra provvista di patate per l’inverno in un recipiente posto sotto una piccola finestra, nel seminterrato. Le condizioni non erano favorevoli, tuttavia le patate germogliavano ugualmente, dei pallidi germogli biancastri, tanto diversi da quelli verdi e vigorosi che spuntavano quando le patate venivano piantate in terra a primavera. Continua a leggere…
Carl Rogers, Potere personale, Astrolabio Ubaldini
A differenza dei cuccioli degli animali, gli esseri umani nascono totalmente indifesi e lo rimangono per un lungo periodo della loro vita dipendendo, in tutto e per tutto, dagli adulti della specie che diventano le figure di riferimento. Possono essere i genitori o altri adulti che si occupano di loro, ma in ogni caso il senso di impotenza è totale per cui il bambino sa che senza qualcuno che si prenda cura di lui è perduto. In un tale scenario tante sono le occasioni in cui il bambino può non sentirsi accudito, amato, protetto, riconosciuto, situazioni che spesso generano in lui traumi più o meno profondi.
La parola “trauma” deriva dal greco τραῦμα (-ατος) e significa “ferita”. Se in medicina si parla di trauma quando vi è una lesione nell’organismo, in psicologia un trauma di solito è causato da un avvenimento dotato di una forte carica emotiva: si verifica cioè quando la nostra vita deraglia, quando dobbiamo fronteggiare situazioni che mettono in pericolo la nostra integrità in senso ampio.
Come aveva però osservato lo stesso Rogers: nonostante le condizioni sfavorevoli in cui ci possiamo trovare, vi è in noi un’originaria tendenza alla crescita e alla trasformazione, una tendenza che tenta di riportarci sempre all’equilibrio. Anzi, sembra che siano proprio le condizioni sfavorevoli a risvegliare in noi la stessa forza che Rogers identificò nelle patate: una forza risanatrice, “germogliante”.
È indubbio che siano più numerose le vite segnate da un qualche trauma, di quelle che si possano dire esserne prive, ma è pur vero che di per loro i traumi non determinano un blocco definitivo nella crescita dell’individuo, al contrario possono orientarlo verso la costituzione di un nuovo equilibrio.
Questo accade sia con i traumi causati da gravi accadimenti esterni (violenza, malattia, morte di una persona cara, abbandono…), sia con quelli che potremmo definire traumi “su scala minore”, per quanto anche loro capaci di generare profonde emozioni di disagio. Si tratta, ad esempio, di quelle situazioni di ordinaria difficoltà in cui veniamo messi di fronte ai nostri limiti: limiti umani, che possono farci soffrire, ma anche mostrare nuove prospettive.
Eppure bisogna aver occhi per vedere: osservare una situazione da una diversa prospettiva e cogliervi nuove, diverse opportunità. Come Saint-Exupery aveva saggiamente fatto dire al Piccolo Principe: non si vede bene che col cuore. Ma come vede il cuore? Come fa a cogliere quell’invisibile che è così prezioso per il nostro benessere?
Un percorso esiste e passa attraverso tre parole chiave, tre momenti fondamentali che si tramutano in un motto: conosci, accetta, trasforma.
La comprensione
Per prima cosa è necessario conoscere, comprendere ciò che sta accadendo fuori, ma soprattutto dentro di noi. Comprendere non come semplice esercizio di comprensione logica di quanto accade, ma come possibilità più ampia che riflette la capacità di “contenere in sé”, “prendere con sé” qualcosa. Nell’ottica dell’esperienza dolorosa, implica la capacità di avvicinarsi e osservare ciò che accade dentro di noi, riconoscere le emozioni e i pensieri, gli schemi che entrano in gioco, la natura di ciò che stiamo vivendo. Si tratta di una fase importante, la prima a cui ci si accosta nel processo che permette di accedere al proprio potenziale trasformativo.
E cosa c’entra il cuore in tutto questo? Tantissimo se, come spiega Petra Guggisberg Nocelli, l’atto di comprendere “richiede coraggio, onestà, disponibilità ad affrontare le proprie illusioni emotive e sentimentali, i preconcetti e i pregiudizi”.
Sottolineo: coraggio, onestà, disponibilità ad affrontare le proprie illusioni.
Come arrivare quindi alla comprensione? È necessario percorrere la via dell’osservazione di sé, un modo di osservarsi privo di giudizio: osservare ciò che si muove al nostro interno, senza giudicarlo, assumendo “la posizione dell’osservatore”, è la chiave per comprendere. L’osservazione, infatti, permette di sviluppare una distanza da ciò che si osserva, di non identificarsi con i propri contenuti psichici e di giungere infine alla conoscenza di sé e alla comprensione di ciò che si sta vivendo.
L’accettazione
Alla comprensione segue l’accettazione, condizione imprescindibile per poter proseguire.
In senso ampio accettare significa terminare la lotta con noi stessi e accogliere ciò che è; significa dare spazio a ciò che si prova, lasciare che la tristezza sia tristezza, la rabbia sia rabbia, la paura sia paura.
Sarebbe un errore confonderla con la rassegnazione perché, al contrario di quest’ultima, l’accettazione è una forza dinamica che rende possibile il cambiamento.
La rassegnazione, di fatto, è statica, passiva, ancorata al passato per cui non può che generare sentimenti di impotenza e frustrazione. Mentre l’accettazione favorisce l’amore verso noi stessi, la rassegnazione induce al rifiuto generando chiusura e fossilizzandoci in un modo d’essere, non permettendoci una trasformazione.
Accettare non significa tollerare o rassegnarti a qualunque cosa. Accettare vuol dire abbracciare la vita, non soltanto sopportarla. Accettare significa letteralmente “prendi ciò che viene offerto”. Non significa rinuncia o ammetti la sconfitta, né stringi i denti e subisci. Significa aprirti completamente alla tua realtà presente: riconosci com’è, esattamente qui e ora, e rinuncia a combatterla per com’è in questo momento.
Russ Harris, La trappola della felicità, Trento, Edizioni Erickson, 2013, p. 79
Piero Ferrucci in Crescere, narra di quando, allievo di Roberto Assagioli, fu convocato per il servizio militare e la sola idea lo facesse sentire “furibondo e depresso al tempo stesso”. Quando riferì la notizia ad Assagioli fu molto sorpreso dalla risposta che ricevette. Assagioli, infatti, gli disse: “Magnifico, ora imparerai a collaborare con l’inevitabile. Questa sarà una parte importantissima della tua didattica di psicosintesi”. Ferrucci spiega che in quella risposta Assagioli gli stava suggerendo di non brontolare per una situazione che era comunque inevitabile, ma di tentare di estrarne tutti i benefici possibili. Ferrucci seguì il consiglio e finì per trarne un insegnamento fondamentale:
Avevo semplicemente capito che quando incontriamo un evento spiacevole possiamo decidere di accettarlo per quello che è, senza lamentarci perché l’universo non si adatta ai nostri desideri. Come dice Marco Aurelio, non ci mettiamo a litigare con le circostanze della vita. La nostra prima e spontanea reazione può essere naturalmente un senso di ribellione o di dispiacere. Ma non appena assumiamo un atteggiamento di accettazione, scopriamo di poter capire meglio ciò che sta capitando, di imparare ciò che le circostanze ci insegnano, e di avvantaggiarci di ciò che, nonostante tutto, esse ci offrono: diventiamo allora responsabili della scelta del nostro atteggiamento interno invece di perder tempo ad accusare emotivamente il mondo esterno.
Piero Ferrucci, Crescere, Roma, Casa Editrice Astrolabio, 1981, p. 98
L’accettazione rappresenta anche la fase conclusiva di quello che Elizabeth Kübler-Ross ha definito il “processo di elaborazione del lutto”.
La capacità di rimanere col dolore, di poterne vedere l’altra faccia, di non “respingere” alcuna esperienza, ma trarre da essa la sua lezione, il suo dono, come afferma Vittorio Viglienghi, è un presupposto fondamentale per accogliere l’accettazione e innescare la trasformazione. Si tratta di guardare con occhi diversi ciò che si vive, in particolare quando viene chiamato in causa il dolore.
[Quando] ci capita una cosa sfavorevole, una malattia, un insuccesso, un’ostilità altrui, una difficoltà… la reazione spontanea, “naturale”, “umana” è quella di considerare la cosa come un male, a cui ci si ribella, ci si oppone, ci si lamenta, si cerca aiuto. Questo è un errore.
[L’]atteggiamento spirituale [implica, invece, la possibilità di] accogliere benevolmente e fortemente la prova, la cosa “nemica”. Chiedersi qual è il suo messaggio. Cioè: indagarne le cause (soprattutto in noi); cercare di comprenderne il significato; vedere che funzione può avere, chiederci: “che cosa ci costruisco sopra”.
Vittorio Viglienghi, Accettazione.
È un passo importante, fondamentale perché offre la possibilità di poter guardare la propria sofferenza dall’alto, senza esserne troppo coinvolti emotivamente, con uno sguardo più lucido e positivo. Uno sguardo che ridona speranza là dove si è persa, che aiuta a ritrovare il gusto per la vita e a percepire il senso di ciò che si sta vivendo. È una prospettiva che libera dalle catene della sofferenza fine a se stessa, della propria manchevolezza e, in certi casi, dell’indegnità che si prova a essere felici. Riconoscere la necessità di ciò che si sta vivendo, per quanto incomprensibile possa essere è determinante nel processo di trasformazione del dolore.
È difficile, dinanzi a eventi che scardinano l’ordine della nostra vita, che irrompono con violenza a turbare i nostri equilibri, essere consapevoli della necessità di questo male. Essere consapevoli che ogni tassello, anche il più inquietante, alieno, incontrollabile, può avere un senso che noi capiremo dopo, in un tempo ancora a venire.
Aldo Carotenuto, Le lacrime del male, Milano, Tascabili Bompiani, 2004, p.89
Accettare è non conoscere le risposte, ma confidare nel fatto che arriveranno. È non rassegnarsi alla visione limitata e distorta dalla sofferenza che si ha nel momento di dolore, una visione che costruisce muri tra noi e gli altri e dentro di noi, che ci condanna all’incomunicabilità, come se non ci fosse altra verità di quella vergata sulla porta dell’inferno dantesco: “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”.
È grazie all’accettazione che possiamo riconciliare quanto stride dentro di noi, che possiamo far nostra la consapevolezza che, scrive Carotenuto in La chiamata del daimon, “ciascuno di noi può venire colpito solo nel punto in cui è più sensibile. Ma il nostro tallone di Achille, la nostra ferita è anche la feritoia dalla quale è possibile iniziare a guardare sia noi stessi che il resto del mondo in modo nuovo.”
La sofferenza può farsi ricerca, non più fuori ma dentro di noi. Può offrire lo stimolo per riconoscere e accogliere la nostra complessità, le luci e le ombre che ci albergano, e, tramite l’accettazione, preparare il terreno per il cambiamento, la trasformazione.
Cambiare si può, certe volte si deve perché è il dolore stesso a imporcelo. Rimanere nel bozzolo troppo a lungo uccide il baco che sarebbe diventato farfalla, e lo stesso rischiamo noi se non accettiamo la sfida, se la paura di cadere ancora più in basso ci trattiene dallo spiccare il salto nell’ignoto. Accade così che solo l’intollerabilità del dolore riesca a convincerci. Un passo in avanti e tutto cambia.
Essere divenuto, invece, più profondamente uomo è il privilegio di coloro che hanno sofferto; ed io credo d’esserlo divenuto.
Oscar Wilde, De profundis
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Immagine in apertura di Marcos Paulo Prado