Sesta e ultima parte del progetto “L’altra faccia del dolore”
Quando ci capita una situazione difficile, un ostacolo, qualcosa che giudichiamo negativo perdiamo di vista la possibilità di sentirci bene, di provare gioia nonostante tutto. È come se quella situazione, quella difficoltà permeasse la nostra vita, come se arrivando avesse eliminato tutto il bello. La nostra è una visione parziale della realtà e per questo ci impedisce di vedere quanto effettivamente ci circonda.
Finché non facciamo nostro un atteggiamento diverso e impariamo ad accettare la parte buia di quanto ci sta capitando, non riusciamo a scorgere nient’altro. Ci ribelliamo, ma senza risultati. Invece, è nell’accettazione che troviamo la chiave per poter guardare oltre. Si parte sempre da lì.
La situazione dolorosa acquisisce il colore della sfida, di ciò che ci mette alla prova, che ci richiede di essere presenti a noi stessi e di utilizzare o riconoscere le nostre qualità.
L’accettazione reca con sé una pacifica resa, un senso di tranquilla presa d’atto della realtà: si sta vivendo un momento difficile, ma al contempo si possono scorgere anche altri orizzonti, altre piccole o grandi cose che colorano in modo diverso la nostra esperienza quotidiana. Si recupera il senso delle proporzioni per cui il dolore non permea più tutto, ma può coesistere accanto ad altri momenti utili e preziosi, momenti di pace, di raccoglimento e, soprattutto, di gioia. Quando permettiamo alla gioia di esprimersi in noi possiamo riceverne i doni, ovvero risvegliare ed accrescere le nostre energie.
Permettere alla gioia di emergere in una situazione di dolore, però, appare spesso un’impresa titanica. Come riuscirci?
L’idea che per essere felici non si debbano incontrare ostacoli è un’idea infantile, che porta essa stessa alla sofferenza perché una vita facile, priva di sfide è una vita che conduce in larga parte alla noia e all’insoddisfazione. La gioia che si sperimenta, invece, nel mettere se stessi alla prova, nel riuscire ad affrontare e a superare la sfida, è una conquista reale.
La gioia che dà il poter “vivere una vita ricca e significativa” è una gioia che comprende la possibilità di far esperienza del dolore, ma di non rimanerne avvinti.
Tra gli ostacoli alla gioia quattro, secondo Assagioli, sono i principali che è fondamentale saper riconoscere e affrontare:
- in primis, come già detto, c’è il modo in cui viviamo dolore e avversità. Alcuni di noi possono addirittura sviluppare una forma di attaccamento alla sofferenza. Nelle sue parole:
Esaminando tali ostacoli con animo sincero e spassionato riconosceremo che ciò che più ci fa soffrire è il nostro atteggiamento, il nostro modo di reagire a quelle circostanze, a quei fatti; che spesso fonte di sofferenza è anzitutto la ribellione. È evidente che la ribellione non fa che acuire il dolore. Vi è inoltre spesso un atteggiamento meschino di fronte ai piccoli inconvenienti, alle piccole punture di spillo della vita, la facilità con cui ci lasciamo irritare.
Roberto Assagioli, Lo sviluppo transpersonale, Roma, Casa Editrice Astrolabio, 1988, pp. 226-227
- Un altro ostacolo risiede nell’essere esigenti. “Siamo esigenti verso gli altri”, scrive Assagioli, “verso le circostanze; atteggiamento che poi si traduce in lamento, in querimonia, nel troppo noto brontolare”;
- Il prendere le cose troppo sul serio, il sentire troppo l’aspetto tragico della vita;
- Il prendere noi stessi troppo sul serio. “L’attaccarci a un dato genere di soddisfazioni, o a una data soddisfazione; da qui il dolore se proprio quella viene a mancare”.
Riconoscere questi aspetti in noi stessi ci mostra la via maestra per poter accogliere la gioia nella nostra vita. Anziché ribellarci al dolore, possiamo utilizzarlo per sviluppare qualità positive come la generosità e la pazienza.
Accanto agli ostacoli vi sono, al contempo, numerose fonti da cui possiamo attingere per nutrire ed espandere la nostra gioia. Ad esempio, possiamo trarre gioia dalla bellezza, dalla natura, dall’arte, dalla comunione che proviamo nell’amore e nell’amicizia, dal lavoro quando ci impegna e appassiona, dal servizio nei confronti degli altri, dal raccoglimento e dalla meditazione. In tutto questo possiamo cogliere non solo la gioia, ma un senso alla nostra vita.
Il segreto è sviluppare uno sguardo che aiuti ad accorgersi di queste piccole e grandi fonti di gioia perché sono invisibili solo fintantoché non riusciamo a percepirle o ad attribuire loro il giusto valore. E non vedendole ci convinciamo che la gioia ci sia preclusa.
Non è necessario aspettare che arrivi, ma possiamo attivamente coltivarla. Ad esempio, dando più spazio al buon umore.
E infine giunge la pace. Non si tratta però di una pace che esclude la sofferenza, al contrario le due possono coesistere perché, attraverso la nostra esperienza di dolore, siamo approdati alla consapevolezza che “soffrire ed essere infelici non sono la stessa cosa”.
Il dolore fa parte della vita umana. Evitarlo è quasi impossibile, ma sarebbe soprattutto uno spreco perché quando il dolore arriva ci mostra quali sono i nostri limiti e, mostrandoceli evoca in noi, come scrive Piero Ferrucci, “un desiderio disperato di trascenderli, la sete di una pace definitiva”. Non si tratta quindi di superare il dolore, ma di trascenderlo, trasmutarlo.
I problemi seri nella vita non sono mai risolti completamente. Se mai così potesse apparire sarebbe il segnale che qualcosa è andato perduto. Il significato e lo scopo di un problema sembrano trovarsi non nella sua soluzione ma nel nostro lavorare ad esso incessantemente. Solo questo ci preserva dall’essere vani e dalle pietrificazioni di noi stessi.
Carl Gustav Jung
“Creiamo noi i problemi che ci sono necessari per crescere”, afferma Molly Y. Brown. “Il compito allora non è risolvere un problema o trattare un sintomo, ma usare le preoccupazioni della vita come focalizzazione della ricerca interiore, e della consapevolezza e scelta che si sviluppano.
Può non essere facile, potrebbe anche apparire insensato soprattutto se siamo abituati a distinguere ed etichettare le cose del mondo in buone o cattive, ma un’altra via c’è, è possibile ed è percorribile. È una via che non offre certezze né garanzie. Forse è una scommessa o una sfida, forse è l’una e l’altra cosa.
Le difficoltà, e la sofferenza che esse generano, possono quindi essere viste come un allenamento. Mettono in gioco quanto è più caro per noi, la nostra integrità e quella delle persone che amiamo, e ci sfidano a mostrare la nostra natura. Chi saremo nel momento di dolore, chi emergerà dalle ceneri. “Non è soltanto quello che uno fa che importa”, scrive Whitemore, “ma come lo fa.” Il nostro atteggiamento determinerà il modo in cui vedremo e quindi vivremo la sofferenza: se come “una sconfitta e un enigma senza soluzione” per cui il futuro ci apparirà “una ripetizione continua del presente” e noi stessi creature impotenti oppure, scrive Ferrucci, se nella disgrazia sapremo cogliere un’opportunità di trasformazione sentendoci quindi competenti e riconoscendo il futuro come un rinnovamento.
Dipende da noi, e questa è la buona notizia, la cattiva, se proprio vogliamo definirla così, è che non c’è più niente e nessuno da incolpare: né gli altri, né il destino, né Dio, né noi stessi. C’è un’opportunità da cogliere, forse amara, di certo impegnativa, ma a non coglierla che cos’abbiamo poi davvero da perdere?
Le lamentele? Il rancore? Il sentirci vittime circondate da colpevoli? Ben magri trofei, a mio parere.
Ho sperimentato in prima persona il percorso esposto e posso testimoniare che l’esperimento è stato un successo. Non si è ancora concluso e forse non si concluderà mai, ma è un’avventura che val la pena di intraprendere.
Ringrazio chiunque sia giunto fin qui a leggere e spero che, anche solo alcune delle idee incontrate, possano offrire uno spunto di riflessione: il punto di partenza per nuovi viaggi, nuove esplorazioni, nuove possibilità.
L’altra faccia del dolore, il progetto
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Immagine in apertura di Michaela Kranich17