Calendario dell’Avvento 2024
Racconto “Brina Malasorte” – Prima parte
C’era una volta una famiglia che tutti conoscevano come i Malasorte. Abitavano una vecchia casa in legno, al limitare del bosco, e si vociferava che in passato fosse un altro il loro nome. Di quel tempo, però, nessuno aveva più memoria e la famiglia Malasorte sembrava aver sempre vissuto in quella casetta rattoppata, con le vecchie assi di legno rose dai tarli e un pezzetto di orto coltivato a cavoli e rape.
Era difficile scorgerli in paese perché la signora Malasorte passava tutto il tempo in casa o nell’orto e il signor Malasorte andava a caccia nel bosco, sempre sperando di tornarvi sano e salvo con un bel fagiano o un grasso cinghialetto sulle spalle.
Marito e moglie avevano una figlia, giovane e bella, di nome Brina.
«Brina, come la gelida brina che d’inverno indurisce il terreno», brontolava la vecchia Malasorte.
«Brina, come la delicata brina che si posa sui germogli addormentati e li protegge dal freddo inverno», si consolava Brina di rimando.
Alcuni credevano che, in tempi ormai andati, la vecchia Malasorte fosse stata una potente strega e il suo consorte un temibile orco, entrambi ora privati dei loro poteri da un sortilegio fatato; altri li reputavano solo due vecchi scorbutici che avevano sempre qualcosa di cui lamentarsi. Se non per il sole, per la pioggia, se non per il caldo, per il freddo. Tanto indisponenti erano i genitori, tanto gentile e d’animo nobile era la figlia.
«Brina, pelandrona che non sei altro! Svelta, vai a prendere acqua dal pozzo, non hai visto che è finita?»
«Brina, stupida ragazza! Svelta, vai a raccogliere una testa di cavolo e due rape per la cena!» urlava la vecchia Malasorte e Brina correva fuori casa ora diretta al pozzo, ora all’orto.
«Che vita è questa? Sempre dal pozzo alla casa, dalla casa all’orto. Mi chiedo cosa ci sarà oltre questo bosco, oltre quegli alberi laggiù. Voi uccellini lo sapete, voi non siete inchiodati a un albero, voi potete volare», sospirava Brina mentre calava il secchio nel pozzo e lo issava nuovamente, per riceverlo carico di acqua fresca.
«Bada a non versarne neppure una goccia», la rimbeccava sempre la madre. «Non si deve sprecare niente! Lo sai che non ce n’è mai abbastanza.»
Brina afferrava il manico del secchio con entrambe le mani e sbuffava di fatica. Avrebbe voluto osservare le foglie accarezzate dal vento, ma ecco che una goccia rischiava di cadere a terra. Attenta Brina!
Avrebbe voluto gustarsi il canto delle cinciallegre… un’altra goccia! Ma sei matta ragazza? La voce della madre rimbombava nella testa di Brina anche quando non era presente e così la ragazza non sollevava mai lo sguardo, non si faceva distrarre dai colori, dagli odori, dai rumori. Il secchio e l’acqua che conteneva erano più preziosi di tutte le meraviglie del mondo.
«Quanta acqua hai sprecato oggi per strada?» la rimbrottava la madre al suo ritorno.
«Neppure una, sono stata attenta.»
«Bene, sarà meglio, non ti ho cresciuta sprecona.»
Brina, entrando in casa, avrebbe voluto tapparsi il naso per la puzza di cavoli, un odore persistente, come se le pareti ne fossero rivestite. Il soffitto sapeva di cavoli, il tavolo, le sedie, persino il suo letto quando ci si coricava la sera le ricordava quanto odiasse quell’odore. E pensare che era lei stessa a coltivare quei benedetti cavoli!
«Non ti lamentare, figlia ingrata. Lo sai che non possiamo permetterci altro. Anzi, quando arriva tuo padre dovresti rinunciare alla tua parte di carne perché non ne hai di certo bisogno, pigra come sei.»
La sera il padre tornava, alcune volte con un sorriso vittorioso, altre volte mesto e, quando capitava, il suo pezzetto di carne Brina non era costretta a cederlo perché non ce n’era per nessuno.
«Sono tempi difficili, Brina, tempi duri dove nessuno ti regala niente. Non farti grandi idee, cammina a testa bassa, spalle curve e senza fiatare», sentenziava il vecchio Malasorte accigliato infilandosi in bocca una forchettata di cavoli cotti.
La notte Brina si affacciava alla finestra della sua camera e si perdeva nell’immensità del cielo stellato. Qualche volta canticchiava per sé, per scacciare la tristezza.
Cavoli a pranzo, cavoli a cena
Di giorno e di notte, è una gran pena
Mi sento svenire, vorrei scomparire
Vivere altrove, partire e viaggiare
Col sole e col vento, senza tornare.
Conoscere il mondo, scoprire se è tondo
Gustarne i colori, vederne i sapori, toccarne gli odori
Sì, io voglio partire, non più qui restare
Partire e volare, scoprire, esplorare.
Leggi la seconda parte del racconto (17 dicembre)
Fiabe Moderne di Lara Marzo
Racconto tratto daIl calendario dell’Avvento 2024
Immagine in apertura di Balikó András