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Racconto “Il ventunesimo” – Terza parte
Alla fine Estelle era scesa dal treno ed era tornata indietro. Rientrata a casa aveva trovato Graziella seduta in salotto, davanti alla televisione. Era un nuovo apparecchio perché la madre aveva insistito molto affinché il marito sostituisse la vecchia tv in bianco e nero con la novità a colori. Ed ora eccola lì, la osservava Estelle, davanti alla sua fedele nuova compagnia. L’aveva osservata di nascosto, senza dire che era tornata, chiedendosi se i colori che trasmetteva quell’apparecchio fossero gli unici che sua madre fosse in grado di apprezzare. Tutto il resto nella sua vita si risolveva sempre in una tonalità di grigio: diverse sfumature di grigio che da sempre l’accompagnavano.
«Non fare rumore Estelle, tua madre non si sente bene.»
«Non essere egoista Estelle, tua madre è fragile, cerca di capirla.»
«Non ti arrabbiare Estelle, tua madre ti vuole bene, altrimenti non avrebbe usato parole così dure con te.»
Non, non, non. C’erano tante cose che Estelle non avrebbe dovuto fare o dire perché sua madre era quella che era. Certe volte aveva avuto l’impressione che il padre trattasse la moglie come una bambina, più di quando non avesse mai neppure trattato lei da piccola. Come se Graziella fosse troppo delicata o troppo ottusa per comprendere certe cose. Come se non ci si potesse fare niente, come se fosse una causa persa perché lei era quella che era e pazienza, si andava avanti così: chiudendo gli occhi e tappandosi il naso.
Ma ora, spiando sua madre rapita dai colori della televisione, Estelle ricordava le parole della nonna e si chiedeva se, in fondo, non avesse sempre avuto ragione. In silenzio si era allontanata per rifugiarsi in camera sua.
«Estelle, sei tu?» Graziella si era accorta della sua presenza, il cicaleccio della televisione era cessato.
«Sì, mamma», aveva risposto Estelle tornando sui suoi passi.
«Oh, sei già tornata! Sono contenta così puoi tenermi compagnia, sai oggi mi sento un po’ giù.» Graziella era ancora seduta sul divano e la fissava con un mezzo sorriso, quasi timido.
Estelle sapeva di non doverle chiedere “Perché sei triste?” “È successo qualcosa?” Lo sapeva perché, di fatto, non succedeva mai niente ed era proprio quello a rendere Graziella così triste e apatica. Non accadeva niente e lei non faceva nulla affinché accadesse. A parte la televisione, la nuova televisione a colori. Su alcune cose sua madre si impuntava e allora le otteneva. Estelle aveva iniziato a chiedersi perché non avrebbe potuto impegnarsi anche per ottenere altre cose, cose più sostanziose.
«Stavo pensando che potremmo organizzare una festa per il tuo compleanno. Del resto è il ventunesimo, è importante. Potresti invitare i tuoi amici.»
«No mamma, non mi va di festeggiare. La nonna è appena morta. Non mi va proprio.»
«Oh ma perché? Lei ne sarebbe stata felice, lo sai quanto amasse festeggiare.»
«Non mi va», ribadì Estelle mentre i lineamenti di Graziella si contraevano e un velo di grigio disappunto scendeva a offuscarle lo sguardo. Succedeva sempre quando non si faceva come voleva lei.
«Potresti farlo per me…», bisbigliò la madre osservandola quasi fosse un cucciolo in attesa di essere coccolato e vezzeggiato.
La voce di Agnese saettò improvvisa e perentoria nella mente di Estelle: non vivere come una mendicante se sei nata regina.
«Se ci tieni alla festa, puoi organizzarla per te stessa, a me non va», replicò ancora prima di allontanarsi.
Oh nonna, come si fa a esser regina? Come si fa? Si era chiesta Estelle rifugiandosi in camera sua e prendendo, dal cassetto della scrivania, il mazzo di carte che era appartenuto alla nonna.
I suoi genitori stavano per buttarle quando era intervenuta lei: no, quelle non si toccavano. Dopo il funerale non le aveva ancora prese in mano, ma ora si chiedeva se le avrebbero parlato come sembravano fare con la nonna. Agnese, ogni volta che girava una carta, sorrideva sempre e poi annuiva. Non era mai capitato che scuotesse la testa o si lamentasse. Del resto lei, come amava ripetere, non era tipo da lamentarsi: se qualcosa non le piaceva, semplicemente scrollava le spalle e poi guardava in ogni direzione possibile, alla ricerca di qualcosa di diverso, qualcosa che facesse davvero per lei. Diceva: «Estelle, se potessi, ma ormai non posso più, farei come lui» e le mostrava la carta dell’Appeso, un uomo appeso per una caviglia, a testa in giù.
Leggi la quarta parte del racconto (13 dicembre)
Fiabe Moderne di Lara Marzo
Racconto tratto daNelle puntate precedenti…
Immagine in apertura di Sebastien LE DEROUT