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Racconto “Io mai” – Quarta parte
Il giovane sospirò e riaprì gli occhi. I tarli avevano cominciato il loro lavorio incessante, urla di vittoria, urla di sconfitta. Non erano quelli i ricordi a cui voleva tornare, erano altri. Anche se tutti ugualmente dolorosi, ma alcuni lo erano in modo diverso. C’era anche gioia, c’era un sorriso. Il giovane richiuse gli occhi.
Esisteva un luogo in cui avrebbe sempre potuto rifugiarsi, ovunque si trovasse, un luogo in cui realtà e fantasia si incontravano e dove tutto poteva ancora accadere. Quel luogo in cui ritrovava se stesso e ritrovava lei. Lei e i suoi capelli castani raccolti in un crocchio ordinato, quei capelli che si era sorpreso a osservare, ammirare, durante i primi giorni da apprendista dal mastro fornaio, come se si trovasse al cospetto di una regina, il giorno dell’incoronazione. E anche ora che ci ripensava, ecco che risentiva quel tuffo dentro sé, quella piccola capriola che aveva accompagnato il primo incrocio di sguardi.
Lui era solo un imbranato apprendista, lei una giovane commessa, poco più giovane di lui. Lui sempre ricoperto di farina, chiuso nel retrobottega a impastare; lei linda e ordinata, il grembiule legato in vita, il timido sorriso che riservava ai clienti. Lui che si alzava quando ancora tutti dormivano, ma non gli importava perché non c’era altro luogo in cui avrebbe voluto essere; lei che giungeva in negozio recando con sé le prime sfumature del nuovo giorno.
Non c’erano state presentazioni, nessun convenevole. Lui era l’apprendista del retrobottega, lei la figlia del mastro fornaio. Qualche sguardo di sfuggita, qualche curiosità taciuta, due estranei le cui esistenze si incontravano solo nel passaggio del pane caldo dal forno ai cesti disposti in file dietro al bancone. La timida accortezza di lui nell’impastare, la serena riservatezza di lei nel prendere il pane e consegnarlo agli avventori. Era anche questo amore? Lui non avrebbe saputo dirlo, era giovane, goffo, impreparato. Non conosceva altro amore se non quello di una madre che lo aveva cresciuto con strane idee in testa, ripeteva il padre. Una madre che se n’era andata, altrove, che vegliava su di lui, dicevano, ma vegliava in silenzio. Anche lei, in silenzio.
E poi, come ogni anno, nel villaggio era arrivata la Fiera.
«Ragazzo, più veloce! Impasta! Metti quelle pagnotte nel forno! Forza, porta quella cesta in negozio! Sbrigati!»
Il suo lavoro in quei giorni non aveva conosciuto tregua: dall’impasto al forno, dal forno alle ceste, dalle ceste agli affamati clienti. Un via vai continuo. Nessun familiare suono di campanello a segnalare un nuovo arrivo: la porta rimaneva sempre aperta e come il ragazzo consegnava nuove infornate di pane, eccole sparire per mano di lei tra sorrisi e ringraziamenti.
«Bravo ragazzo, continua così: lavora sodo e verrai ricompensato», gli aveva detto il mastro fornaio e il giovane non sapeva se crederci o meno. In lui ancora risuonavano le parole rabbiose del padre sulla vita, quella meretrice bastarda che non guardava in faccia nessuno: la vita si prendeva quello che voleva e se ti lasciava con un tozzo di pane duro era tanto.
«Guarda cos’ha fatto con tua madre! Lei ci credeva alle ricompense: comportati bene, sii un brav’uomo e la vita ti ripagherà. Oh certo, mi ha ripagato portandomela via! Bada ragazzo, non credere mai alla giustizia, non esiste nulla del genere, non per uomini come noi.»
E perché non credergli, in fondo, lui lo sapeva bene: anche in quel momento, mentre lei era così vicina, il suo chignon ordinato ad appena un passo da lui, il fiocco del grembiule che lo sfiorava danzando con lei mentre passava dalle ceste di pane al bancone, e il suo profumo, quel profumo di pane e innocenza che non avrebbe potuto appartenere a nessun altra, anche in quel momento lui già lo sapeva. Sapeva bene che lei era una promessa fatta a un altro.
Leggi la quinta parte del racconto (5 dicembre)
Fiabe Moderne di Lara Marzo
Racconto tratto daLeggi le precedenti parti del racconto
Immagine in apertura di Clark Young