C’era una volta una famiglia che tutti conoscevano come i Malasorte. Abitavano una vecchia casa in legno, al limitare del bosco, e si vociferava che in passato fosse un altro il loro nome. Di quel tempo, però, nessuno aveva più memoria e la famiglia Malasorte sembrava aver sempre vissuto in quella casetta rattoppata, con le vecchie assi di legno rose dai tarli e un pezzetto di orto coltivato a cavoli e rape.
Era difficile scorgerli in paese perché la signora Malasorte passava tutto il tempo in casa o nell’orto e il signor Malasorte andava a caccia nel bosco, sempre sperando di tornarvi sano e salvo con un bel fagiano o un grasso cinghialetto sulle spalle.
Marito e moglie avevano una figlia, giovane e bella, di nome Brina.
«Brina, come la gelida brina che d’inverno indurisce il terreno», brontolava la vecchia Malasorte.
«Brina, come la delicata brina che si posa sui germogli addormentati e li protegge dal freddo inverno», si consolava Brina di rimando.
Alcuni credevano che, in tempi ormai andati, la vecchia Malasorte fosse stata una potente strega e il suo consorte un temibile orco, entrambi ora privati dei loro poteri da un sortilegio fatato; altri li reputavano solo due vecchi scorbutici che avevano sempre qualcosa di cui lamentarsi. Se non per il sole, per la pioggia, se non per il caldo, per il freddo. Tanto indisponenti erano i genitori, tanto gentile e d’animo nobile era la figlia.
«Brina, pelandrona che non sei altro! Svelta, vai a prendere acqua dal pozzo, non hai visto che è finita?»
«Brina, stupida ragazza! Svelta, vai a raccogliere una testa di cavolo e due rape per la cena!» urlava la vecchia Malasorte e Brina correva fuori casa ora diretta al pozzo, ora all’orto.
«Che vita è questa? Sempre dal pozzo alla casa, dalla casa all’orto. Mi chiedo cosa ci sarà oltre questo bosco, oltre quegli alberi laggiù. Voi uccellini lo sapete, voi non siete inchiodati a un albero, voi potete volare», sospirava Brina mentre calava il secchio nel pozzo e lo issava nuovamente, per riceverlo carico di acqua fresca.
«Bada a non versarne neppure una goccia», la rimbeccava sempre la madre. «Non si deve sprecare niente! Lo sai che non ce n’è mai abbastanza.»
Brina afferrava il manico del secchio con entrambe le mani e sbuffava di fatica. Avrebbe voluto osservare le foglie accarezzate dal vento, ma ecco che una goccia rischiava di cadere a terra. Attenta Brina!
Avrebbe voluto gustarsi il canto delle cinciallegre… un’altra goccia! Ma sei matta ragazza? La voce della madre rimbombava nella testa di Brina anche quando non era presente e così la ragazza non sollevava mai lo sguardo, non si faceva distrarre dai colori, dagli odori, dai rumori. Il secchio e l’acqua che conteneva erano più preziosi di tutte le meraviglie del mondo.
«Quanta acqua hai sprecato oggi per strada?» la rimbrottava la madre al suo ritorno.
«Neppure una, sono stata attenta.»
«Bene, sarà meglio, non ti ho cresciuta sprecona.»
Brina, entrando in casa, avrebbe voluto tapparsi il naso per la puzza di cavoli, un odore persistente, come se le pareti ne fossero rivestite. Il soffitto sapeva di cavoli, il tavolo, le sedie, persino il suo letto quando ci si coricava la sera le ricordava quanto odiasse quell’odore. E pensare che era lei stessa a coltivare quei benedetti cavoli!
«Non ti lamentare, figlia ingrata. Lo sai che non possiamo permetterci altro. Anzi, quando arriva tuo padre dovresti rinunciare alla tua parte di carne perché non ne hai di certo bisogno, pigra come sei.»
La sera il padre tornava, alcune volte con un sorriso vittorioso, altre volte mesto e, quando capitava, il suo pezzetto di carne Brina non era costretta a cederlo perché non ce n’era per nessuno.
«Sono tempi difficili, Brina, tempi duri dove nessuno ti regala niente. Non farti grandi idee, cammina a testa bassa, spalle curve e senza fiatare», sentenziava il vecchio Malasorte accigliato infilandosi in bocca una forchettata di cavoli cotti.
La notte Brina si affacciava alla finestra della sua camera e si perdeva nell’immensità del cielo stellato. Qualche volta canticchiava per sé, per scacciare la tristezza.
Cavoli a pranzo, cavoli a cena
Di giorno e di notte, è una gran pena
Mi sento svenire, vorrei scomparire
Vivere altrove, partire e viaggiare
Col sole e col vento, senza tornare.
Conoscere il mondo, scoprire se è tondo
Gustarne i colori, vederne i sapori, toccarne gli odori
Sì, io voglio partire, non più qui restare
Partire e volare, scoprire, esplorare.
Poi una notte, Brina si svegliò assetata e udì i genitori che parlottavano in cucina.
«È grande ormai, sta diventando difficile sfamarla con quel poco che abbiamo.»
«Hai ragione, moglie, e mi sembra bella abbastanza perché qualcuno possa volerla in sposa.»
«Sì, bella è bella, bella abbastanza, un po’ pigra ma non c’è bravo marito che non la saprà rimettere in riga.»
«Giusto! Ieri parlavo con il vecchio fabbro, sai è rimasto vedovo e le ha fatto un complimento.»
«Oh, il fabbro, ma certo, sarebbe un ottimo partito e poi ci potrebbe aiutare in casa quando ce n’è bisogno», la vecchia Malasorte si sfregò le mani soddisfatta all’idea del futuro che avrebbero garantito alla figlia e a loro stessi.
Brina ascoltava appoggiata alla porta socchiusa della sua camera, gli occhi sbarrati, il cuore che batteva furioso e infuriato.
Il vecchio fabbro? Come possono pensare che io…, tremava cercando di capire come avrebbe potuto evitarlo.
Sperava che i discorsi dei genitori fossero solo fugaci chiacchiere, che il giorno dopo se ne sarebbero dimenticati. Ma con l’affacciarsi del nuovo giorno i vecchi Malasorte annunciarono a Brina il suo imminente fidanzamento con il fabbro.
Non può essere, continuava a ripetersi Brina di ritorno dal pozzo, mentre gocce su gocce cadevano fatalmente a terra.
Non può essere. E ora cosa faccio? Si disperava raccogliendo cavoli e rape nell’orto e posandoli nell’ansa del suo grembiule.
Quella stessa notte, affacciata alla finestra, Brina cantò il suo dolore.
Non posso restare, i miei mi voglion maritare
Uno sposo che il mio cuore rifiuta d’amare
Né buono né bello né giovane o snello
Non ama viaggiare, le radici qui ha piantato
Vorrei rifiutare, dire di no a gran fiato
Ma non posso, devo sparire, scappare
Dire addio per sempre, mai più ritornare
Stanotte, sì proprio stanotte, è tempo d’andare.
E così Brina raccolse tutto il coraggio che mai aveva pensato di possedere, mise in un fagotto il suo vestito più elegante, rubò un pezzo di pane duro, che i suoi genitori conservavano per tempi ancora più difficili, e se ne andò.
Ho paura, sono sola, temo il buio, ma ho fiducia, qualcuno mi aiuterà, vero signor gufo? Qualcuno mi aiuterà, sì qualcuno ci sarà, e così ripetendosi Brina si avvolse il capo nello scialle scuro, l’unico che possedeva, e attraversò il bosco in direzione della strada che l’avrebbe condotta in paese.
Voleva passarvi mentre tutti ancora dormivano, per non correre il rischio che qualcuno la riconoscesse.
Camminò e camminò. Per quanta stanchezza sentisse, la paura che i suoi genitori si fossero messi sulle sue tracce era più grande, così non si fermò se non per bere un sorso d’acqua da un fresco ruscello e per sbocconcellare un po’ di pane. Si lasciò anche il paese alle spalle.
Venne l’alba e a tenerle compagnia c’erano ora le cinciallegre e i passeri e i fringuelli.
«Cantate amici miei, cantate anche per me», sussurrava Brina rincuorata. Era tutto nuovo ai suoi occhi: orti che si perdevano all’orizzonte, strade ampie su cui passavano carri e carrozze. Com’erano belli i cavalli! E le case che costeggiavano la strada: sembravano regge paragonate alla sua! Colorate, con gerani rossi e rosa alle finestre, un cane che abbaiava al suo passaggio, un gatto che la ignorava sdraiato al sole.
Ora Brina camminava a viso scoperto salutando i passanti con un semplice buongiorno, quasi sempre ricambiato. Gente nuova, gente sconosciuta.
Non sapeva ancora dove si sarebbe fermata per la notte, ma voleva allontanarsi il più possibile e conservava la segreta fiducia che sarebbe stata aiutata.
Arrivò il tramonto e Brina era ancora in viaggio. Passò quella prima notte all’aperto, protetta nell’abbraccio di un anziano pino mugo. Il giorno dopo riprese il viaggio. I passi si facevano più incerti, il tozzo di pane si rimpiccioliva a vista d’occhio e poi arrivarono anche le nuvole scure, tozze e cariche. Per quella notte si preannunciava un temporale coi fiocchi.
Oh, come farò? A chi chiederò riparo? Non conosco nessuno, non so cosa fare, pensava Brina sconfortata quando, all’improvviso, un carro le si fermò accanto.
«Ehi ragazza, sei mica diretta al palazzo della fata di Mezzanotte?»
Brina fissò incerta il vecchio che aspettava una risposta. Non aveva la più pallida idea di chi fosse quella fata, ma da qualche parte era pur diretta, quindi perché non proprio a quel palazzo? Annuì esitante.
«Oh bene, ti ho trovata! Guarda che hai sbagliato strada. Devi andare per di là, dai salta su che ti ci porto io. La fata ti aspettava ieri, sono venuto a cercarti. Sei stata fortunata, pensa dove saresti andata a finire senza di me!»
Brina rimase in silenzio, non sapeva che dire. Se la fata conosceva la persona di cui parlava quel vecchio, di certo si sarebbe subito accorta dell’errore, ma forse avrebbe avuto il buon cuore di offrirle un riparo per la notte. Meglio tentare!
Il palazzo della fata di Mezzanotte non era un palazzo tanto per dire, era un vero e proprio palazzo alto due piani dipinto di blu notte, con finimenti blu oltremare su porte e finestre.
«Eccoci arrivati ragazza, scendi e buona fortuna.»
«Buona fortuna?»
«Sì, buona fortuna! Vai che la fata ti sta aspettando e le fate non si fanno MAI aspettare!»
Il vecchio se ne andò lasciando Brina a qualche passo dall’ingresso. La ragazza stava per bussare quando la porta si aprì e una voce dall’interno la invitò a entrare. Brina obbedì e la porta si richiuse alle sue spalle.
Copyright © 2023 Lara Marzo
Immagine in apertura di Cederic Vandenberghe
Last modified: 13 Luglio 2024