Il Gran Ballo era da sempre l’evento più atteso. In ogni quartiere, palazzo e casa padronale se ne parlava con gran fervore di lodi e sospiri. Non si trattava del ballo più bello o del più elegante o del più prestigioso in termini assoluti, quanto del più atteso.
C’era un’unica regola che nessuno si era mai sognato di infrangere, nessuno di cui si fosse venuto a conoscenza, perlomeno: tutti potevano organizzare un Gran Ballo, ma nessuno poteva parteciparvi se non espressamente invitato. Così c’erano il Gran Ballo del quartiere Gallo, il Gran Ballo del quartiere Grezzo, e ancora il Gran Ballo nel palazzo Giusto e il Gran Ballo nella casa dei Conti Grasso.
Insomma, ogni quartiere, palazzo e villa organizzava il proprio Gran Ballo: non c’erano porte che non venissero aperte, stanze che non fossero adibite a sale e strade che non accogliessero signore e signori, dame e cavalieri per una serata.
Alcuni erano più ambiti di altri, ma l’invidia durava poco dato che nessuno rimaneva mai senza invito.
Non c’era persona, dall’accattone più rattoppato del villaggio al barone più infiocchettato del regno, a cui fosse davvero precluso l’onore di parteciparvi.
Quell’anno però, l’anno del raccolto più abbondante e del mosto più dolce, era anche l’anno in cui Francesco, il figlio del Rigattiere, compiva i suoi diciassette anni. L’anno seguente ne avrebbe avuti diciotto e per allora non sarebbe più stato solo “il figlio del”, ma il Rigattiere punto. Per quanto suo padre fosse morto l’anno prima sotto il fuoco nemico di un fulmine, nel quartiere i Vecchi avevano deciso che Francesco avrebbe comunque ereditato la professione solo ai diciotto anni compiuti, così come sanciva la legge.
Francesco non se n’era rammaricato, al contrario, senza più il controllo paterno, poteva ora realizzare una delle sue fantasie proibite: partecipare al Gran Ballo in Città. Lui, figlio di un rigattiere, nato nel quartiere Gallo, secondo le regole avrebbe ricevuto solo un invito ufficiale, quello al Ballo del suo quartiere. Senza ulteriori inviti, qualunque altro Gran Ballo gli sarebbe stato per sempre precluso. A lui inviti espliciti non erano arrivati e non ne attendeva alcuno, ma aveva anche scoperto che nessuna regola poteva definirsi tale se qualcuno non riusciva ad infrangerla.
Francesco conosceva il Sarto e le sue fortunate mani. Lo chiamavano il Sarto Fortunato, non perché fosse particolarmente bravo con ago e filo, ma perché aveva il dono di trovarsi sempre tra le mani qualche merce pregiata: un vestito nuovo dimenticato da qualcuno nell’albergo del quartiere, una cesta di pomodori maturi al punto giusto, come appena raccolti dagli orti del Re, un invito per il Gran Ballo in Città.
Il giorno prima Francesco aveva lasciato la casa del Sarto con tre soldi in meno, un invito e un abito in puro lino in un pacchetto di cartone. I tre soldi erano passati dalla sua tasca lisa a quella rattoppata del Sarto come una stretta di mano tra gentiluomini. Il Sarto era uno di cui ci si poteva fidare, uno che se lo pagavi bene sapeva farsi i fatti suoi e t’aiutava pure.
«Che eleganza fratello!» lo apostrofò Susanna facendo capolino nella stanza in cerca del suo nastro per capelli.
Francesco sorrise allo specchio. La camicia scivolava come seta sulle sue braccia e l’abito di lino sembrava l’avesse perso uno che era tale e quale a lui sia in larghezza che in altezza.
«Quindi nessun ripensamento? Con questo vestito qui potresti sposarti stasera stessa!»
«Non voglio sposarmi», bofonchiò Francesco sempre rivolto allo specchio. Susanna afferrò il nastro, scivolato in terra accanto al letto, e si fermò ad ammirare le linee morbide della giacca che davano a suo fratello il tocco del gran signore.
«Già, lo so, tu non vuoi conquistare qualcuno con i tuoi vestiti, tu lo vuoi conquistare col tuo sorriso!»
Francesco fissò lo sguardo sull’abito e sospirò. Non c’era cattiveria in sua sorella, lo sapeva, eppure non poteva non rammaricarsi del tono.
«Bè», proseguì Susanna prima di andarsene, «nel caso riportassi a casa una principessa, fammelo sapere in anticipo che metterò in tavola il servizio buono!»
Rise e poi gli lanciò un bacio da lontano: «Ma soprattutto non prestare ascolto a questa vecchia invidiosa e divertiti al ballo!»
Francesco attese che Susanna fosse uscita, diretta al Gran Ballo del quartiere, per chiudere la casa, sellare il cavallo e scrollarsi di dosso tristezza e disappunto. Quel ballo sarebbe stato il suo Gran Ballo e niente avrebbe dovuto rovinarlo. L’occasione era forse capitata per caso, l’idea l’aveva coltivata senza troppa convinzione, ma non era riuscito a dimenticare le parole di sua madre. Anno dopo anno fino al suo dodicesimo compleanno, perché il tredicesimo non era riuscita a vederlo, mentre Francesco l’aiutava a prepararsi per il Gran Ballo, lei gli aveva ripetuto: «Oh piccolo mio, hai un bellissimo sorriso sai? Ma proprio bello bello! Scommetto che se un giorno qualcuno ti inviterà al Gran Ballo in Città quel sorriso ti farà incontrare il tuo destino, quello vero, quello che sta aspettando proprio te.»
«Sciocchezze», ripeteva suo padre. «Sposerà una principessa!» rideva Susanna. Ma sua madre non ci badava, continuava a sorridergli e a ripetergli quelle parole, le uniche che per lei contassero.
Francesco cavalcò fino in Città con gli occhi e il sorriso di sua madre nel cuore. Lo faceva per lei, perché lei vedesse che perlomeno ci aveva provato.
Entrò nella Gran Sala del Municipio addobbata a festa con mazzi di settembrini gialli e viola punteggiati da narcisi bianchi, drappi in velluto azzurro e tavoli ricolmi di tartine, torte salate e dolci, formaggi con marmellate e miele. Francesco non aveva mai visto un banchetto così generoso e si commosse. Sembrava fosse stato allestito per lui, per celebrare il suo coraggio d’esser lì.
Il via vai per le sale all’inizio lo confuse. I balli erano già iniziati, le dame attendevano accanto alle finestre di essere notate dai giovanotti che si accalcavano nei pressi del buffet. Le coppie già formate ridevano senza imbarazzo e si stringevano l’uno all’altra per evitare di perdersi.
Era tutto un chiacchierare, indicare, criticare e sorridere. Tanti sorrisi di ogni foggia e colore: abbondanti e rossi, tirati e grigi, a pochi o a molti denti. Sorridevano le bocche, meno spesso gli occhi. Francesco aveva seguito l’esempio degli altri uomini e si era appostato vicino al buffet godendone sia i sapori dolci che quelli salati. Sarebbe stato un peccato non approfittarne.
Non era possibile avvicinare qualcuno senza essersi fatti presentare dal Gran Cerimoniere e Francesco non disperava che l’occasione si sarebbe presentata anche per lui. Continuava a guardarsi intorno, ma nessuno lo attirava e nessuno sembrava notarlo.
La musica cambiava, balli lenti, balli veloci, balli di gruppo, balli in due. I suoi piedi presero a muoversi per conto loro, al ritmo che riempiva la sala in quel momento. Fu un attimo, un bicchiere di troppo gli fece perdere l’equilibrio, indietreggiò di un passo e il suo gomito finì sulla spalla di una signora che pigolò: «La mia mussola, oh la mia mussola!»
Francesco ritrasse subito il gomito e chiese scusa sperando di svignarsela in fretta. Ma la signora lo tenne stretto per la manica della giacca e, senza guardarlo, continuò a lamentarsi: «Signore, la mia mussola!»
Francesco lanciò un’occhiata all’abito della donna e non vide alcun danno irreparabile: «Mi perdoni, non intendevo… ma posso assicurarle che la sua mussola sta bene, è sopravvissuta incolume all’impatto.»
«Oh, se lo dite voi, così sembrerebbe», rispose la signora guardando di sottecchi la manica del suo abito. «Però non so se dovrei fidarmi del parere di un uomo, perché a ben vedere voi siete un uomo e mio marito, questo ve lo posso assicurare, non capisce la differenza tra una mussola da tre soldi e una da cinque.»
Francesco fece un inchino e replicò: «Grave mancanza da parte di vostro marito, signora, la mussola è un argomento di cui ogni uomo dovrebbe conoscere il valore.»
«Voi mi prendete in giro, signore! Oh Isabella, è vero che questo giovanotto mi prende in giro?» piagnucolò la signora rivolgendosi a una ragazza che, fino a quel momento, la sua generosa corporatura aveva in parte nascosto.
«No di certo, signora», si difese Francesco. «Non mi reputo un grande intenditore di mussola, non come la mia cara sorella, ma so riconoscerne una da tre da una da cinque soldi e la vostra, di certo, ne vale almeno cinque.»
La signora addolcì lo sguardo e, sempre rivolta alla giovane accanto a lei, proseguì: «Ebbene Isabella, un giovanotto che sa riconoscere il valore di una mussola, merita indubbiamente di sapere con chi ha l’onore di parlare.»
La ragazza scomparve per ricomparire subito dopo seguita dal Gran Cerimoniere. Le presentazioni furono fatte e la signora Rossetti, accompagnata dalla signorina Isabella, scoprì che il giovanotto che s’intendeva di mussola era un tal Francesco Riga da Tierre.
«Ebbene, signor Riga da Tierre sareste così gentile da invitare la mia Isabella per un ballo?»
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