Spesso accogliamo la malattia come un ospite indesiderato. Suona alla porta e anche se vorremmo far finta di non esserci, sappiamo che le luci accese in cucina hanno tradito la nostra presenza. Mastichiamo un’imprecazione e, rassegnati, abbandoniamo qualunque cosa stessimo facendo per farlo entrare.
Che sia un lieve mal di gola, una tosse fastidiosa, un raffreddore o un’influenza che ci costringe a letto, la malattia rimane il più inopportuno degli ospiti. Ci invade e, come se davvero fosse un esercito invasore, iniziamo a combatterlo a suon di sciroppi, antinfiammatori e antibiotici. Del resto che altro potremmo fare? Esiste forse un altro modo per farlo sloggiare dal nostro corpo senza essere troppo scortesi?
Alcuni consigliano di affidarsi ai rimedi omeopatici ed erboristici, e la contrapposizione tra medicina allopatica e alternativa alimenta un dibattito tutt’oggi acceso [1. Sulla medicina alternativa: The Triumph of New-Age Medicine by David H. Freedman – Theatlantic.com].
Ci si chiede quale sia la più efficace, quale la più accreditata per eliminare l’intruso e ripristinare la salute. Per riprendere le nostre occupazioni il prima possibile e senza ulteriori intoppi.
Essere malati tra innocenza e responsabilità
Ricordo che da piccola, quando la malattia non era un mio problema, mi sentivo felice nel sentire mia madre dire: “Hai qualche linea di febbre, oggi rimani a casa”. Potevo lasciare che le coperte continuassero a coccolarmi, niente lezioni, niente compiti, mia madre che rimaneva a casa con me, mi preparava spremute e mi diceva che dovevo mangiare per recuperare le forze. Era tutto così rassicurante che quasi pensavo fosse un diritto ammalarsi di tanto in tanto per farsi voler bene. Mia madre era sempre di corsa e così, quando mi fermavo io era costretta a fermarsi anche lei. Non so quanto lo apprezzasse, ma per me era un dono.
Crescendo la malattia è diventata affar mio e la magia è scomparsa. Oggi il lavoro mi aspetta con il bello e il cattivo tempo, d’estate e d’inverno, con l’umore alle stelle o sotto qualche metro di terra. Eppure ogni tanto mi ammalo ancora e una parte di me sospira di sollievo: ecco, penso, finalmente posso riposarmi. Spegnere il cervello e occuparmi solamente di una persona, ovvero di me stessa. Mia madre non mi rimbocca più le coperte, non mi prepara più le spremute e non mi dice più che devo mangiare per rimettermi in forze, faccio tutto da sola, per me stessa. E alle volte mi capita di sentirmi di nuovo come a 7 anni, a modo mio felice.
Voi come vivete la malattia? Quali sentimenti vi suscita?
La malattia, un ospite indesiderato
Di solito quando andiamo dal dottore ci aspettiamo che ci prescriva qualcosa, qualunque cosa, per farci guarire e via. Non ci preoccupiamo veramente della malattia, di quello che implica, finché non ci sentiamo dire: “Signore/a, io non so cosa darle, non ho la cura per il suo male”.
È come se ci dicessero che l’ospite si è installato in casa nostra e non ha alcuna intenzione di andarsene. Si appropria della nostra camera da letto, sostituisce i nostri vestiti con i suoi, mangia alla nostra tavola, usa il nostro bagno e… fa come se fosse lui il padrone.
La malattia diventa la protagonista della nostra vita. Quando qualcuno ci chiede come stiamo in realtà sta domandando come sta lui, il nostro male, l’ospite indesiderato. Perché noi, la persona che siamo stati prima della sua comparsa, non contiamo più nulla, non siamo più nessuno. Siamo i primi, infatti, ad affermare che siamo malati. La malattia è diventata il nostro modo d’essere. Ci sentiamo persi e col tempo può anche capitarci di credere che l’ospite è sempre stato con noi, che è lui il vero padrone e che nessuno ci crederà se proveremo a controbattere.
Perché accade? Perché al cospetto del medico ci siamo sentiti dire: “Non ho cura per il suo male”? Quando la medicina ci abbandona, a cosa possiamo aggrapparci?
Ci chiediamo perché è capitato proprio a noi; ci disperiamo perché quella vita che non abbiamo mai apprezzato tanto ora ci potrebbe essere portata via; malediciamo il mondo perché non è giusto quello che ci sta capitando. E in fondo lo facciamo perché la malattia e quello che implica ci fanno paura.
Spesso nella malattia ci sentiamo soli, soli con noi stessi per quanto ci siano altre persone intorno a noi: medici, infermieri, familiari, amici… Ma loro stanno bene, loro sono sani, come possono capire, come possono camminare al nostro fianco?
La malattia come squilibrio psicofisico
Se riconosciamo nella malattia un nemico da sconfiggere, come ci è stato insegnato, un nemico armato di batteri, virus, cellule malfunzionanti, inevitabilmente imbracceremo le prescrizioni del medico come se fossero un mitra e spareremo a tutto quello che si muove, in preda al panico. E basta. Forse guariremo, forse no, dipende dalla nostra mira, dalla fortuna e dalla statistica.
Il nostro corpo è in guerra e noi scendiamo al suo fianco. Questa è un’interpretazione, ad oggi la più accreditata, ma non è l’unica. Ad esempio, per la psicosomatica la malattia assume la valenza di un messaggio del nostro corpo.
È il sintomo di uno squilibrio che il corpo a modo suo sta cercando di riparare. Non si tratta di una guerra, ma di una riparazione dunque. Bombardereste ancora la zona sapendolo? Sì, probabilmente lo fareste perché è in gioco la vostra vita, ma la consapevolezza di trovarsi di fronte a un messaggio vi mostrerebbe anche un’altra via da percorrere in parallelo.
Sembra paradossale, ma la persona che ascoltiamo di meno siamo proprio noi stessi. Sapete perché?
Sempre a causa della stessa vecchia compagna di giochi: la paura. Abbiamo paura di noi stessi, di quello che potrebbe uscire se scoperchiassimo il nostro personale vaso di Pandora: sogni, desideri inespressi, bisogni, richieste soffocate…
E così la malattia parla per noi e a nostro discapito.
Quando va bene il dottore ci dà una pastiglia, quando va male ci dice di iniziare a pregare. E se insieme alla pastiglia e alla preghiera provassimo anche ad ascoltare la nostra voce?
Se smettessimo di essere malati e iniziassimo a occuparci di quella parte di noi che ha contratto la malattia?
Alcuni sicuramente tacceranno questo approccio di ascientificità, ma la fondatezza delle malattie psicosomatiche non è stata provata ieri per quanto per secoli sia stata ignorata.
Il desiderio inascoltato
Qualche tempo fa mi capitò di ricevere l’invito di alcuni amici ad una gita. Ero molto impegnata col lavoro, così provai a rimandare spiegando le mie motivazioni, ma mi implorarono di accettare e pur di malavoglia finii per dire di sì. Quella stessa notte mi svegliai col mal di gola e la tosse. Presi una pastiglia e sperai che mi passasse in fretta dato l’impegno del giorno dopo. La mattina dopo non solo la gola era in fiamme, ma avevo anche la febbre. A quel punto l’invito ero “costretta” a rifiutarlo. Dato che ero evidentemente malata i miei amici accettarono di spostare la gita alla settimana seguente. Guarii e senza più brutti pensieri mi godetti la gita felice di aver accettato l’invito.
Quel mal di gola e la febbre furono fortuiti? Di certo non me li ero andati a cercare… eppure a modo loro esternarono il rifiuto che non ero riuscita a manifestare. Il mio desiderio di accettare l’invito era sincero, ma senza rispettare i miei tempi e senza permettermi di scegliere avevo forse intrappolato in gola il disagio?
Comunque sia il messaggio fu chiaro: tu oggi non vai da nessuna parte.
La malattia aveva parlato per me e senza usare mezzi termini!
Vi è mai capitato che una malattia capitasse al momento opportuno? O che, in un certo senso, parlasse per voi?
Immagine in apertura di Ben+Sam