Alcuni anni fa tenevo un corso di scrittura a un gruppo tutto maschile. Di regola, gli uomini, durante l’intervallo, facevano crocchio per parlare di politica o di sport. Ma un giorno stavano raccontandosi storie di guerra. O meglio, uno di loro raccontava le sue esperienze durante la seconda guerra mondiale, mentre gli altri ascoltavano rapiti. L’uomo che parlava era l’unico dei dodici che fosse stato in guerra in vita sua; gli altri erano terribilmente curiosi rispetto a un’esperienza con cui non avevano potuto, o voluto, confrontarsi personalmente. Io chiesi al reduce di continuare a raccontare in modo più formale durante la lezione.
Iniziò a raccontare le storie a lui consuete e familiari: momenti di coraggio, momenti di paura; tutto suonava eroico, romanzesco, addirittura venato di nostalgia. A partire dal 1945 aveva raccontato queste storie migliaia di volte. Dopo un po’ fu evidente che stavamo soltanto “facendo salotto”, e che tanto il narratore che gli ascoltatori venivano privati di una parte essenziale dell’esperienza: in sostanza, della verità. Ma io non sapevo dove questa risiedesse, né come accedervi.
Stava raccontando: “Eravamo in una trincea…”
Con una certa gentilezza chiesi: “Che cos’è una trincea?”
Mi guardò sorpreso. Stavo scherzando? Ero stupida?
Del tutto seria, ripetei la domanda.
Mi fissò in viso a lungo. “Una trincea è un posto pieno di sangue, budella e merda di quelli che ci sono stati prima di te”.
Nella stanza ci fu un profondo silenzio.
L’uomo riprese: “Saltai fuori dalla trincea e corsi verso il carro armato tedesco…”
“Un momento” dissi, in un lampo di comprensione. “Ti dispiace raccontare questa storia molto, molto lentamente, al rallentatore, come se fosse un film, inquadratura per inquadratura, vedendo tutto nel momento in cui lo racconti? Raccontalo al presente, come se succedesse adesso”.
Cominciò. Parlava molto lentamente. Descrisse le varie cose che accadevano, momento dopo momento. Era come se ci fossero giorni fra una frase e l’altra. Andammo con lui al suo ritmo doloroso.
Strisciava fuori dalla trincea. Correva, ma al rallentatore, verso il carro armato… A quel punto scoppiò in lacrime. Pianse inconsolabilmente. Noi tutti piangemmo con lui. Il silenzio nell’aula era rotto solo dal nostro pianto.
Quando riuscì di nuovo a parlare, disse semplicemente: “Non l’avevo mai visto prima. I carri armati… il sangue e i cervelli spiaccicati sopra”.
“Se l’avessi visto, se l’avessi sentito, mentre lo vivevi” dissi, “non saresti sopravvissuto”.
L’unico modo in cui i soldati sopravvivono a una guerra è quello di diventare privi di coscienza.
In seguito, la forma delle storie di guerra mantiene questa mancanza di coscienza. Come il sonno crepuscolare*, queste storie hanno il fine di impedire ai soldati di ricordare ciò che non hanno potuto “vivere” al momento. Tuttavia il momento reale è vivo dentro ognuno di noi e deve essere udito.
Tratto da Scrivere per crescere di Deena Metzer
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*Lo stato di anestesia e analgesia indotto artificialmente in chirurgia con un’iniezione di morfina o scopolamina.
Immagine di JB Banks