Gli inglesi lo dicono meglio. Dove noi usiamo un unico termine per indicare lo stato di chi sta o vive solo, la lingua inglese ama distinguere tra “loneliness” e “solitude”.
Loneliness ha una connotazione negativa e indica un senso di isolamento. Si prova quando sentiamo che qualcosa o qualcuno manca nella nostra vita. Lo possiamo provare anche quando siamo in compagnia di altre persone, infatti non richiede una reale solitudine fisica.
Solitude, al contrario, indica lo stare da soli senza sentirsi soli. Ha un significato positivo e costruttivo che denota un impegno con se stessi. La solitudine è desiderabile ed è uno stato in cui ci si sente bene, in buona compagnia con se stessi.
Purtroppo in italiano questa sfumatura si perde e spesso il termine solitudine viene utilizzato esclusivamente nella sua accezione negativa.
Alcuni pensano che nessuno potrebbe coscientemente sceglierla: essere soli si trasforma quindi in una maledizione, una condizione che potremmo definire in tanti modi, ma non di certo piacevole.
A scuola si sentono soli quelli che non fanno parte dei gruppi “in”, a volte vittime di bullismo o più spesso semplicemente ignorati in un’età dove le distinzioni sono nette e implacabili: o sei dentro o sei fuori, o sei “come noi” o sei uno sfigato.
Nell’età adulta, invece, la solitudine viene spesso associata agli anziani rimasti senza famiglia o “abbandonati” dai figli.
Se pensiamo a queste situazioni tipiche io stessa mi chiedo: chi potrebbe coscientemente scegliere la solitudine? La risposta, però, sarebbe troppo scontata così come non è scontata la solitudine in un mondo interconnesso come quello di oggi.
Chi davvero oggi può dirsi completamente solo? Ci sono i social network, i blog, le chat, i forum… basta accendere il computer e il mondo là fuori si catapulta nella nostra stanza. È naturale che Internet diventi la nostra isola felice: pazienza se siamo finiti in una scuola di ignoranti, pazienza se non troviamo amici intorno a noi, Internet ce ne porta a frotte con un semplice clic. Questa la realtà che viviamo oggi: siamo sempre collegati, sempre connessi con qualcuno, sempre visibili.
In un mondo così interconnesso è ancora possibile “sentirsi soli”? È possibile apprezzare la solitudine? È socialmente accettabile preferire la solitudine alla compagnia degli altri in un mondo in cui la prima è diventata apparentemente “evitabile”?
Il bisogno di solitudine viene spesso stigmatizzato nonostante la psicologia ci spieghi come la solitudine sia una caratteristica fondamentale e imprescindibile per il benessere dell’individuo.
È davvero salutare vivere esclusivamente in rapporto agli altri?
William Deresiewicz, professore di inglese a Yale, afferma: “La tecnologia ci sta portando via non solo l’intimità e la concentrazione, ma anche la capacità di stare soli.”
Nel suo articolo The end of Solitude (in italiano Addio solitudine pubblicato sulla rivista Internazionale), Deresiewicz discute sul ruolo che la solitudine ha ricoperto nella storia e spiega come ancora oggi sia un elemento importante per lo sviluppo personale.
Solitudine non significa isolamento e perdita di contatto con la realtà che ci circonda, al contrario è un saper entrare in comunione con la parte più profonda di noi stessi per relazionarci in modo più sano con gli altri. Non saper affrontare la solitudine può trasformarsi in un incubo per chi sente il bisogno imperante di “stare con qualcuno”, che si tratti degli amici o di una persona d’amare.
Come si riscopre il piacere della solitudine? Staccando la spina per un po’, accantonando l’ansia di “perdersi gli ultimi aggiornamenti” e riconoscendo che anche noi stessi abbiamo bisogno di un’attenzione speciale.
Come reagiranno gli altri? Perderemo i nostri amici se sentiamo il bisogno di starcene anche per conto nostro? Ci considereranno degli asociali? È evidente: sì, capiterà. Per chi pensa che la solitudine sia qualcosa da disprezzare diventeremo un fenomeno da baraccone, qualcuno con qualche strana malattia! Scrive Deresiewicz: “La solitudine non è un’esperienza facile, e non è per tutti.”
Possiamo anche vivere escludendola dalla nostra vita per molto tempo, ma quando reclamerà a gran voce il suo spazio difficilmente riusciremo a far finta di niente.
Il prezzo della solitudine, afferma Deresiewicz, può essere quello dell’impopolarità. “La solitudine non è molto cortese. Thoureau* sapeva che i nostri amici potranno trovare sgradevole il nostro atteggiamento solitario. Per non parlare dell’offesa implicita nell’evitare la loro compagnia.”
È indispensabile a questo punto chiedersi: quali amici ci abbandonerebbero? Esiste un tipo di amicizia capace di sopravvivere alla solitudine? Voi cosa ne pensate: può il desiderio di solitudine conciliarsi con l’amicizia?
Come considerate la solitudine? Ne sentite il bisogno o preferite evitarla?
Da parte mia, nel corso del tempo, ho imparato a fare i conti con quello che può essere non solo un piacere, ma anche un vero e proprio bisogno. Il bisogno di tornare a se stessi e di isolarsi per un po’. Un bisogno vitale e imprescindibile, per quanto ancora poco popolare e spesso bistrattato.
Per approfondire:
- The call of Solitude di Ester Buchholz
- What is Solitude? di Hara Estroff Marano
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*Nel 1854 Henry David Thoureau scrisse un’opera in cui elogiò la solitudine, Walden
Immagine in apertura di anoldelt
Volendo semplificare la differenza tra i due concetti all’atto pratico è la seguente:se per la sera di Capodanno hai una serie di inviti ma scegli di restare da solo sei uno che ama la solitudine (solitude),se invece per la sera di Capodanno resti a casa perchè nessuno ti ha invitato allora è altamente probabile che la solitudine per te sia un problema (loneliness) ;un pò come dire “non mangio perchè non mi va” quando hai il frigo pieno ed il non mangiare di chi non ha i soldi necessari per farlo….
Che cerca la “solitude” in realtà non è mai solo,è in compagnia di quello che lui reputa il meglio in assoluto,Sé stesso!!
Esempi calzanti Germana! Hai colto molto bene la differenza tra “solitude” e “loneliness”. In alcuni casi capita anche che una persona senta il bisogno della solitudine, non tanto perché già stia bene con se stessa, quanto perché si è a tal punto allontana da sé che qualcosa di potente e incomprensibile, la spinge a ritirarsi dal mondo e a riscoprire quello che a lungo ha lasciato da parte: il suo mondo interiore. In quei casi la solitudine è un’esigenza che forse complica un po’ la vita sociale, ma reca con sé un dono tutto da scoprire. Come ben dici tu: un nuovo tipo di compagnia ricca e preziosa, la “tua” stessa compagnia. 🙂
Ciao,
ti pongo un quesito:come si può amare la solitudine e soffrirla allo stesso momento?
Ciao Germana,
in effetti può sembrare un controsenso eppure è più frequente di quello che si possa pensare perché da un lato abbiamo la solitudine “cercata” e dall’altra la solitudine “imposta”. Nel primo caso non siamo persone “sole”, ovvero senza alternative alla solitudine, ma persone che, in particolari momenti, sentono il bisogno di rimanere da sole, di spendere del tempo per sé e con sé, che appunto “scelgono” la solitudine. Nel secondo caso, invece, mancano le alternative ed è allora che la solitudine può farsi sofferenza: perché possiamo amarla sotto certi aspetti, ma ciò non significa precludersi completamente i rapporti sociali, i quali mantengono sempre la loro importanza. Potremo quindi anche non sentirci persone super socievoli, sempre pronte a partecipare a una festa o a un’uscita serale di gruppo, ma siamo comunque esseri umani e in quanto tali propensi a trascorrere parte del nostro tempo in compagnia.
Se manca equilibrio tra il tempo speso da soli e il tempo speso con gli altri, lo percepiamo e soffriamo della disarmonia che si è venuta a creare. Per chi ama la solitudine può essere meno doloroso, sotto certi aspetti, sostenere un tale squilibrio, ma alla lunga non ne rimaniamo indifferenti ed ecco che allora, accanto al piacere della solitudine si insinua una sottile malessere che ci fa pensare: “Sto benissimo da sola, non baratterei il mio tempo passato a (fare qualunque cosa mi piaccia) con nient’altro, anche se…”