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La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli

Recensione scritta da Silvana Pincione

Se dovessi trovare una definizione calzante per la trilogia inaugurata da Daniele Mencarelli con La casa degli sguardi, sarebbe quella di un lungo viaggio nel tempo e nello spazio. Nel tempo, in quanto la vicenda narrativa al centro di ognuno dei libri riguarda una fase della vita del protagonista ben circoscritta, che lo vede affrontare un percorso di evoluzione e crescita personale. Nello spazio, perché la narrazione in ciascuno dei tre volumi è inquadrata entro la cornice di ambienti di volta in volta diversi, che l’autore riesce a rappresentare con tale vividezza da portare il lettore a sperimentarli in prima persona, rendendoli tangibili, materiali. Il prodotto finale è quello di tre volumi distinti, autonomi da un punto di vista tematico, che hanno per comune denominatore il personaggio/autore.  Un viaggio corposo, dunque, che ha la particolarità di procedere secondo una logica inversa, a ritroso.  

L’autore, Daniele Mencarelli, è nato nel 1974 ed è un poeta romano. Prima di esordire con la narrativa ha pubblicato diverse raccolte di poesie (“I giorni condivisi”, 2001;”Guardia alta, 2005; Bambino Gesù, 2010 “Storia d’amore”, 2015) e scrive di cultura e società in diversi quotidiani e riviste. Debutta con la narrativa nel 2018 con la Casa degli sguardi, con cui ha vinto i premi Jhon Fante, Severino Cesari Opera Prima e il premio Volponi.

La fallimentare ricerca di senso: il vuoto autodistruttivo di Daniele

Daniele è un giovane poeta che non riesce più a trovare una ragione che giustifichi il suo stare al mondo. Il suo malessere scaturisce dall’incapacità di trovare un senso in una vita destinata a finire, in un destino che ha il potere di annullare tutto quello che l’uomo ha costruito, per cui si è battuto, sacrificato, in cui ha creduto:

Ma io non sono malato, sono vivo oltre misura […] Ormai agli uomini non è più permesso interrogarsi, abbracciare l’insensatezza su cui abbiamo costruito certezze assurde. Perché alla vita, al lavoro, a farsi una famiglia, a queste cosa bisogna credere, come un soldato alla guerra. Come se non bastasse un niente a far scattare il destino, a far finire tutto. Perché finisce tutto, non rimane niente. È il niente che mi uccide […]

 Nel duello tra la forza di vivere e la natura distruttrice della sorte e della morte, è la seconda ad avere la meglio. Daniele inizia a bere per non pensare, perché il pensiero è così insopportabile da causargli sofferenza e finisce con il diventare un’alcolista, che trascina le sue giornate senza più uno scopo, di fronte all’impotenza della sua famiglia. Ma quella sorte che tanto teme ha in serbo per lui un’opportunità: tramite un conoscente viene a sapere che all’Ospedale pediatrico Bambin Gesù stanno cercando personale per le pulizie. E Daniele, che non crede più di poter tornare a vivere, ma vuole darsi almeno l’opportunità di sopravvivere, decide di accettare.

L’esperienza all’ospedale: un viaggio nella sofferenza attraverso lo sguardo

Daniele affronta questo lavoro inizialmente in punta di piedi, muovendosi timidamente; mostra impegno nel portare avanti le mansioni che gli vengono affidate e comportando queste un carico di fatica fisica non indifferente, si ritrova spesso stanco a fine turno e il richiamo all’alcol per sfogare le sue tensioni rimane forte. Un giorno, mentre si incammina verso gli spogliatoi, fa una scoperta che lo sconvolge e lo porta brutalmente a fare i conti con il contesto in cui si svolge il suo lavoro. Al centro di una stanza che vista dall’esterno sembra una chiesetta c’è una cassa con dentro una bambina “in vestito da comunione”. Morta. Per Daniele la visione è insopportabile. Un collega prova a scuoterlo. Il Bambino Gesù è un ospedale pediatrico, come poteva non aspettarsi che i bambini non morissero?

Vorrei dirgli che non c’è nulla di normale nella morte di un bambino. L’infanzia è quella terra da portare in dote negli anni a seguire, è quel poco di gioia che tocca vivere a noi umani, non il luogo in cui finire la propria vita. Ma la follia più grande di tutte è che il mio collega ha ragione.

Daniele non è pronto ad accettare questa realtà e si difende come ha provato a fare finora, cercando rifugio nell’alcol che annulla la coscienza di sé, fino a quando l’effetto svanisce e il dolore ritorna, più forte di prima. Ma la vita fa il suo corso, i gesti meccanici che compie al lavoro lo aiutano a poco a poco a tenere a bada l’ansia e con essa la tentazione continua di bere, col tempo tra lui e i suoi colleghi nasce qualcosa di simile all’amicizia, una solidarietà sconosciuta, grazie a loro impara “la leggerezza, la capacità di sorridere di fronte a ogni agguato della vita”. In questo contesto il giovane fa conoscenza con la malattia attraverso la testimonianza degli infermieri che hanno in cura i loro piccoli pazienti e dei padri che hanno perso i propri figli e, ancora, attraverso le parole “rubate in mezzo agli ascensori, rubate dappertutto”.

L’esperienza diretta al Bambino Gesù si traduce così in un percorso di educazione al dolore che passa attraverso lo sguardo – da cui il titolo del libro – un dolore che, essendo il prodotto di una visione, non può essere filtrato ma che viene introiettato dall’autore nella sua essenza più pura. Ma quando la luce diventa troppo forte, anche lo sguardo più attento rischia di rimanerne accecato. A salvare Daniele dal pericolo di perdersi definitivamente è l’amore per la poesia, denominatore che unisce tutti i tre libri della trilogia, quell’instancabile energia creativa che si riversa sulle pagine di un quaderno sempre aperto durante le sue interminabili notti insonni. Il messaggio che ci consegna l’autore al termine del suo percorso è che la poesia dà forma all’inesprimibile e il dolore, attraverso la narrazione, acquista un carattere corale che lo rende condivisibile a livello universale.

Una questione di stile

La biografia è un genere difficile e la scelta dello stile quando ci si confronta con il proprio vissuto personale diventa particolarmente cruciale. Quello adottato da Mencarelli che ritroveremo anche in Tutto chiede salvezza e Sempre tornare è uno stile asciutto, crudo, che registra la realtà quotidiana nella sua materialità; i  dialoghi stessi sono riportati spesso in dialetto romanesco, ma al contempo sa diventare aulico quando si tratta di dare voce all’intimità del Daniele poeta e alle sue riflessioni. 

In conclusione, Sempre tornare è un libro che nella sua brevità richiede da parte del lettore l’impegno a essere metabolizzato, non è una lettura leggera. È un libro che implicitamente chiede di essere ripreso, risfogliato, sottolineato, perché un primo livello di lettura potrebbe non bastare. Ecco, si potrebbe dire – come per gli altri due libri di questa trilogia – che non si accontenta di stare in superficie. È come un’immersione che rivela i suoi tesori e le sue meraviglie solo a condizione di affidarsi alle parole dell’autore, per avere il coraggio di andare insieme a lui in profondità.

Informazioni sul libro

Titolo: La casa degli sguardi
Autore: Daniele Mencarelli
Editore: Mondadori
Pagine: 224

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La serie di Daniele Mencarelli (recensioni)

Immagine in apertura di Pexels

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Tag: , Last modified: 21 Gennaio 2024