Recensione scritta da Silvana Pincione
Dopo aver sperimentato il filone biografico con La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza e Sempre tornare, Mencarelli cambia genere e per il suo nuovo, potentissimo romanzo Fame d’aria sceglie per la sua narrazione di adottare la terza persona e addentrarsi nel territorio insidioso dell’amore genitoriale.
L’inizio del romanzo introduce direttamente all’azione attraverso il meccanismo del medias res. Pietro Borzacchi, il protagonista, sta viaggiando a bordo della sua vecchia Golf insieme al figlio Jacopo quando la frizione lo abbandona e si ritrova circondato da “colline di pietra bianca, e tornanti, e paesi arroccati”. Il caso vuole che in mezzo a quella desolazione passi un meccanico, Oliviero, a bordo del proprio carro, che accetta di accompagnarli fino al paese più vicino, Sant’Anna del Sannio.
Pietro chiarisce subito che non è per sé che chiede aiuto, ma per il figlio.“Gravemente disabile, ha bisogno di un bagno, di una bottiglia d’acqua”.
Un ragazzo, diciotto anni al massimo. Sembra ascoltare una canzone, il suo busto dondola avanti e indietro. […] Il ragazzo ha il viso di sua madre […] Ha la delicatezza dei suoi lineamenti, la stessa carnagione di latte- Soltanto, lui è come vuoto. Un corpo vuoto, dondolante.
L’autismo di un figlio raccontato da un padre: la narrazione di un dramma senza vie d’uscita
Jacopo è autistico. Il suo è un autismo “a basso funzionamento, bassissimo”. Pietro lo chiama “Lo scrondo”. Un soprannome apparentemente innocuo, che però è in questo caso solo una maschera di cartapesta che non ha niente di buffo. È solo la disperazione che prova a travestirsi da ironia. Oliviero gli dice di aver sentito parlare di autismo, ma non di funzionamento basso.
“Significa che non parla, non sa fare nulla, si piscia e caca addosso”
Pietro non conosce filtri nel parlare di suo figlio, è abituato alle domande della gente, alla loro malsana curiosità, l’impotenza lo ha indurito e consumato al punto da non preoccuparsi più da un pezzo delle loro reazioni. L’inmprevisto che lo ha bloccato a Sant’Anna di Sannio lo fa sentire disarmato, scombina i suoi piani, che erano quelli di recarsi a a Marina dii Ginosa, vicino Taranto, per incontrare la moglie. Non ci sono meccanici disponibili a riparargli la Golf fino al lunedì successivo e quindi, nell’attesa, non gli resta che fermarsi ad alloggiare in una pensione del paese segnalatagli da Oliviero. Anche la proprietaria, Agata, non smette un attimo di fissare Jacopo. Anche in quel caso la domanda arriva puntuale, come puntuale è la risposta di Pietro, replica di quella data ad Oliviero solo poco prima :
La scena si svolge per arrivare ad un compimento. Pietro, da grande attore, la ripete ogni volta sperando nel successo, e per lui il successo è uno solo. Il silenzio. Togliere al mondo la voglia di parlare, continuare a chiedere.
Da queste righe si evince tutta l’esasperazione di un padre che si ritrova ad affrontare un dramma come la disabilità grave del proprio figlio in un contesto sociale – di cui Oliviero e Agata sono testimoni – che non può in alcun modo comprendere nel senso empatico del termine, stabilire cioè una relazione basata sulla consonanza emotiva che passi attraverso il “sentire” il dramma. Perché non “sta” dentro quel dramma e quando si guarda con occhi superficiali da fuori, rimane ai più solo lo sbigottimento, l’incredulità, figli di un vocabolario emotivo povero, che non ha gli strumenti per declinarsi in termini di ascolto, solidarietà, condivisione.
La paternità come fonte di disperazione: l’esperienza dolorosa di Pietro
La pensione in cui alloggia Pietro in questi giorni di pausa forzata, è punto di incontro dei pochi abitanti del paese: gente, per lo più anziana, che ci viene presentata in tutta la sua mediocrità, personaggi di contorno, comparse sfumate che restano sullo sfondo della narrazione, tra brusii e chiacchiericci, mentre tra le mura della sua stanza si consuma tutta la solitudine e il senso di abbandono di un uomo che esaurisce il suo tempo nell’accudimento continuo del figlio disabile. Il dolore ha svuotato Pietro al punto tale da privarlo di ogni forma di speranza verso una società incapace di supportarlo, visto che le terapie costose a cui ha sottoposto il figlio finora non sono mai servite a nulla e lo Stato non gli è mai stato in alcun modo di aiuto nel fornirgli supporti materiali ed economici. In una condizione di frustrante impotenza come quella che sta vivendo, che spazio potrà mai trovare l’amore per un figlio? Nel mare nero in cui Pietro annega ogni giorno c’è posto per un unico sentimento ed è la rabbia, in tutta la sua spietatezza.
Il miracolo non è mai arrivato. Come unica risposta, da est è spuntato l’odio. Ha ricoperto tutto, i sani, i malati, la vita intera. Per anni è stato così. Poi pure l’odio si è tramontato. Resta la rabbia, quando esplode.
L’incontro con Gaia, una luce nel buio
Un barlume di speranza nel confronto con l’altro sembra riaccendersi in Pietro grazie alla presenza nella pensione della giovane cameriera Gaia, il cui sorriso e”aria fresca” che distoglie l’uomo “dal suo inferno abituale”. Un giorno Gaia ha parole di ammirazione per lui e per la moglie per i sacrifici enormi compiuti per Jacopo e a quel punto Pietro mette lei, e noi lettori, di fronte a una verità disarmante:
“A parte il sacrificio, la questione è un’altra, vuoi saperlo? […] Che se a ogni uomo e a ogni donna su questa terra dicessero quanto è difficile fare figli normali, nessuno ne farebbe più. […] La normalità è come un biglietto della lotteria. Invece tutti pensano che sia naturale il contrario. Che il figlio è come un elettrodomestico costruito per funzionare alla perfezione. Soltanto chi ci passa sa quante competenze ci vogliono per attraversare una strada, per prendere una penna in mano”
Durante l’incontro con Gaia, Pietro si meraviglia di fronte allo spettacolo di un tramonto, riscoprendo la parte più dolce di sé, capace ancora di commuoversi e di emozionarsi. Al di là di quella che poteva sembrare ad un’occhiata superficiale una semplice attrazione fisica, attraverso Gaia Pietro scopre il bisogno che abbiamo dell’altro, di chiedere aiuto quando sentiamo di non poter bastare a noi stessi.
Un finale non autoconclusivo
Se è difficile raccontare la paternità senza scadere nei luoghi comuni, lo è ancora di più quando della paternità viene raccontato un aspetto che così poco si presta ad essere romanzato, spogliato da ogni tentazione pietistica e perbenista. Mencarelli affronta e vince questa sfida consegnandoci una narrazione viva, palpitante, al di là di quel respiro corto, soffocato dall’apnea, quella fame d’aria che la attraversa e che noi percepiamo attraverso le parole del protagonista fino a farla nostra. Lo stile, rispetto a quello sperimentato nei suoi romanzi precedenti, è più duro ed aspro, raramente aperto a suggestioni poetiche: la stessa scelta di un narratore oggettivo obbedisce ad un criterio di distanza, necessario per mettere a fuoco la narrazione – non trattandosi più di un prodotto del vissuto diretto dell’autore. L’impronta di Mencarelli è comunque riconoscibile nel pathos che percorre la vicenda narrata, in quell’attaccamento empatico che concorre alla rappresentazione realistica dei personaggi e al loro mondo interiore.
Fame d’aria è un romanzo che anche nel suo finale rimane aperto, perché quando si riporta la realtà nel suo carattere più nudo e crudo il lieto fine farebbe perdere il romanzo di verosimiglianza. Ma che alla fine ci consegna un messaggio di speranza nella mano tesa a Pietro al culmine della sua disperazione. A riprova che l’umanità gli uni verso gli altri può essere, anche stavolta – anche davanti a “un cielo che resta muto, come una pelle di tamburo che mai nessuno è riuscito a squarciare”, la chiave di accesso all’unica, autentica, ancora di salvezza.
Informazioni sul libro
Titolo: Fame d’aria
Autore: Daniele Mencarelli
Editore: Mondadori
Pagine: 180
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Immagine di Steve Shreve