Recensione scritta da Silvana Pincione
Esiste un mondo in cui la parola ritrova la sua essenza originaria e quel mondo risponde al nome di poesia. Visitarlo è una missione che ogni poeta si propone di affrontare, per consegnare a noi lettori il resoconto del suo viaggio. Questo, a nostra volta, ci permette di lasciar sedimentare dentro di noi i semi che ha raccolto lungo il percorso, nell’attesa che germoglino e ci arricchiscano di nuove conoscenze. Con Naufragi di paesaggi interni, Andrea Ravazzini compie un viaggio interiore lungo 24 anni, consegnandoci un documentato repertorio delle sue scoperte con gli occhi dell’esploratore che va in avanscoperta di territori nuovi.
Andrea Ravazzini vive tra Modena e Corlo, una frazione del comune di Formigine (MO). Lavora per il Centro di Solidarietà di Reggio Emilia Onlus nell’area Dipendenze Patologiche, in una struttura residenziale. Ha pubblicato nel 2022 “Addiction. Attaccamento, disconnessioni e fattori evolutivo-relazionali”, un saggio di taglio psicologico sulle dipendenze.
Naufragi di paesaggi interni si presenta come una raccolta in ordine cronologico di una selezione di componimenti poetici, scritti tra il 1997 e il 2022. E proprio in virtù del lungo lavoro sotteso alla loro realizzazione in un intervallo temporale così ampio, va premesso che il viaggio compiuto dall’autore non è un viaggio semplice. Da buon esploratore ha una mappa, sul cui tracciato sono incisi i nomi degli autori che si sono mossi prima di lui lungo traiettorie simili. C’è l’impronta, inconfondibile, di Antonia Pozzi e di Cristina Campo, in tutte le declinazioni della loro angoscia esistenziale, che trova corrispettivo nel tormento del vivere di Fernando Pessoa. Ma c’è anche la poetica dell’ermetismo di Ungaretti e di Montale, nella ricerca di una parola che punti alla sostanza delle cose, una parola scarnificata da tecnicismi e barocchismi e ricondotta al suo nucleo primordiale.
Procedimento, questo, che trova la sua espressione nel titolo stesso della silloge: l’immagine del naufragio mira infatti a richiamare lo stato di sovvertimento di un ordine, in cui si innesta il sentimento di inquietudine del poeta.
I paesaggi notturni delle prime liriche tra ispidi rami e tempo sovrano
Espressione di tale rovesciamento sono i paesaggi descritti nella prima fase della produzione letteraria dell’autore, che si stagliano sul fondo di sentieri in cui, con evidenti venature simboliste, il cammino è reso disagevole da ispidi rami – (Paesaggio notturno) – e da radure ispide, rosee taglienti spine, rovi di carta (Nuvole appuntite). Paesaggi che la luce non riesce a raggiungere, se non sotto forma di bagliori intermittenti (Intermittenze). Al poeta non resta che procedere nell’immobilità del buio, non senza la raggelante sensazione di artigli alla gola (Spavento). In queste prime liriche prevale una concezione statica del tempo, definito sovrano e immutabile (Intermittenze, Crepatura) a cui fa da contraltare la marcia silenziosa della vita, il senso di un’attesa che si manifesta a lampi e di una speranza che possa essere fonte di ristoro e coperta dell’anima (Speranza). Manca però la percezione di un’affidamento incondizionato: il sogno affiora, ma è cauto (Luna traversa), si profila all’orizzonte un porto che vuole simboleggiare salvezza, ma il poeta per poterlo raggiungere deve fare i conti con la paura (Controluce, ove Tigre paura come un omaggio a Cristina Campo).
I primi anni 2000 tra ritmi visionari e toni elegiaci: la poesia come strumento di immortalità
Se suggestioni dannunziane risuonano nell’immagine dell’animo che si disperde nei moti del vento d’aperture montane (Bosco), con l’allusione a un rapporto fusionale con l’elemento naturalistico, nuove consapevolezze si affacciano procedendo lungo il cammino poetico dell’autore: da un lato permane la distinzione tra una vena elegiaca, lirica, delicata, che richiama al rapporto con la natura e il ritmo visionario, straniante, talora martellante dei versi, dall’altro compare lo scarto introdotto dal concetto di “parola”, ove parola in termini pozziani è sinonimo di poesia, il verbo sublime, il cantuccio in cui l’anima si ristora stremata nonché strumento di elevazione dell’io poetante alle altitudini di vetta dell’immortalità (Humanitas; Ad Antonia Pozzi).
Se la lirica che apre la produzione del 2008 ci restituisce le pennellate di un paesaggio verdeggiante, a cui fanno da contrappunto le tonalità accese dei termini scelti per rappresentare lo stato emotivo del poeta (animo trottella in quiete, festoso, rugiada gioiosa), Incubo del 2009 è un ritorno all’atmosfera onirica delle prime liriche nell’immagine dei sogni fanciulli di memoria pascoliana rabbuiati da un’oscurità vorace che mastica spine. Ma proseguendo oltre, ci si accorge di come l’itinerario seguito dall’io poetante, pur senza invertire la rotta ma anzi rimanendo coerente con le coordinate osservate sinora, approfondisca tematiche sia di pertinenza soggettiva che di interesse universale. La Superiore madre che culla l’io poetante e gli permette di orientarsi con stabilità (fermo passo) lungo la via della vita è l’immagine cardine di Fede, mentre in Ode il rapporto con la poesia si connota di sfumature intimiste aprendosi a suggestioni leopardiane nel concetto di nulla:
Poesia,
tu ch’ascolti
e capisci
ogni variazione –stagione notturna –
d’onde e di toni frementi,
bisbigli e frastuoni roboanti,
di cui pavoneggia l’anima,
teatro di preghiera assorta alla vita,
che più teme,
ma a cui arde ancora lo sguardo.
Parola,
tu ch’ergi
il nucleo di carne
su esanime carta
che s’anima,
vibrante,
s’un tiepido nulla.
Andrea Ravazzini, Naufragi di paesaggi interni
Il poeta custode del tempo lungo il fiume della memoria
In relazione ad un senso di solitudine sempre più vasto, i versi restano fedeli all’impronta degli esordi comunicando disincanto e malinconia, talvolta angoscia (animo fanciullo che corre, corre, innanzi a un crepaccio, disarticolato, ove il rancido nulla, silente, ha fame – Primordio), che porta il poeta a abbandonarsi alla resa esausta e infausta, pur nel sottofondo di tamburi gagliardi di lotta (Resa). La metafora del poeta come custode del tempo assume il carattere di un’investitura e di una missione insieme:
Punta luce
Un faro laggiù,
sul latteo mare
ove navigo deserto.
E mi ritrovo,
allo scrosciar delle onde,
in veste di custode
del nucleo del tempo
-che fu e che sarà-
a cavalcar il fiume scosceso,
di memoria e attesa.
Andrea Ravazzini, Naufragi di paesaggi interni
Le suggestioni evocate dal paesaggio marino tornano protagoniste in Rotte (L’animo umano che non osa vivere, ma navigare/Cammina impavido/le rotte più impervie naviga lungo le rotte più impervie) e nell’immagine del naufragio inserito nella cornice del tramonto in Essere, naufragio in cui il poeta sprofonda quieto (rieccheggiando il Naufragar m’è dolce in questo mare di Leopardi) in una pace rappresentata come dea bramosa dalle malcelate, aguzze fauci. Il carattere di apparenza della quiete è complementare a quello di provvisorietà della luce, così come il poeta stesso la descrive in Posizione: vivo/come un condotto tetro/denso di stelle tagliate/gocciolanti/la cui luce/in un tempo che fu/immemore/si sciolse. Ma in Null’altro due sono gli elementi di novità: sullo sfondo naturalistico del bosco tormento, viene introdotta l’immagine simbolo inedita del lupo, al cui manto si aggrappa tenacemente (stretto, stretto) l’io poetante, assurgendo a veicolo della soggettività dell’autore in tutta la sua vividezza. Inoltre, a chiusa del componimento, l’autore si rivolge direttamente alla luce, dicendole di attenderlo quaggiù […] in un letto di foglie/ ove fui gettato/ e che/ accogliendomi/ mi dona spoglie/ ove poter riposare, riducendo, così, una distanza finora percepita come inesorabile. Una tensione all’attesa che trova il suo pieno compimento nella profezia contenuta in Riserva di vero: Sorgerà da sua coppa/ l’uomo primo/arrancando/ e allo sbocciar di petali incanti/ lentamente/si dischiuderà un mondo/il Vero.
Verso nuovi orizzonti di senso e di luce: la speranza come ancora di salvezza
L’ultima produzione poetica dell’autore – che comprende i versi composti tra la metà del 2014 e il 2022 – attesta un notevole allargamento di orizzonti e un’evidente maturazione poetica che trova la sua espressione nell’adesione a un modello di paesaggio in cui, grazie ad un uso sapiente della sinestesia, elementi visivi, acustici e tattili si amalgamano nella direzione di un sempre maggiore processo di astrazione [bosco velluto (Tenerezza), vento di stoffa (Impressioni), ali di petalo (ibidem), fino al pulsar che illumina di Città fumosa]. L’impressione che ne deriva è quella di un approdo da parte dell’io poetante verso lidi nuovi di raccoglimento e riflessione in cui la speranza viene riconosciuta e convalidata nella sua funzione salvifica: Dirottar/ una dea/ o Speranza/ sul cammin mio/mi arde/D’in sua venuta/possa costei/leggiadra/levar mio passo/e ricongiungermi/con l’eterno che bramo (Il paeese accecato), nell’ottica del recupero della parola nella sua essenzialità che rimanda ad Ungaretti:
All’imbrunir
della vita,
mi siedo
sulla balaustra
d’Infinito.
(Balaustra)
Andrea Ravazzini, Naufragi di paesaggi interni
Le ultime liriche sono la fotografia di una parabola: l’io poetante che finora andava errando lungo sentieri impervi avverte la fine imminente del volo notturno/che ha sorgente/le intercapedini/di un cuore (Estimità). In Anima e cielo si percepisce la dicotomia tra il conforto e l’accoglienza ricercato dal poeta (mi accoccolo/al caldo) e la tensione respingente delle nuvole ricce/che sbuffan, sbuffan/con fare scontento, tensione che però trova la sua risoluzione nel cielo d’immenso finale.
Ed è proprio a questa fiduciosa apertura che ammiccano le liriche finali: il tappeto di stelle in Ali del meriggio, la luce/sulle strade/del passato in Sere passate, la bianca nascita di Erranze per poi approdare alla parentesi di senso di Altrove che vede realizzarsi il compimento di un’attesa all’insegna non più di una speranza, ma di una promessa (Sarà maestra).
Il punto d’arrivo di questa evoluzione è ben rappresentato da Terra di sogni, in cui le tinte fosche e crepuscolari che hanno accompagnato i lettori in questo lungo percorso si stemperano nella luce morbida e calda del fiori primaverili, da cui l’io poetante si lascia cullare, pur nell’ossimorico imbrunir luce dell’alba.
A segnare la conclusione del lungo viaggio intrapreso dall’autore è Città fumosa – tributo, ancora una volta, ad Antonia Pozzi (Don Chisciotte; la notte inquieta), che opera uno scarto rispetto agli scenari naturalistici protagonisti dei componimenti precedenti, conducendo il poeta a muoversi entro il perimetro di uno spazio urbano strutturato, illuminato dalla luce artificiale dei lampioni che si fa specchio di una situazione emotiva non pacificata ancorché indeterminata, ma brulicante di vita (la città si presenta fumosa, ma al contempo è gorgheggiante). Vita a cui – proprio nella cornice di un silenzio canoro che avvolge le strade bagnate dalla pioggia – l’autore assegna il compito di apporre il sigillo della propria personale Weltanschaauung, in una definizione che assimila la condizione dell’io poetante a quella di tutta l’umanità:
Vita è
Sedimenti d’un fiume passato,
che
in noi,
posati,
brillan
al levarsi
di lattea
luce mattina.
Andrea Ravazzini, Naufragi di paesaggi interni
Informazioni sul libro
Titolo: Naufragi di paesaggi interni
Autore: Andrea Ravazzini
Editore: Sigem
Pagine: 66
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Immagine di Axel Antas-Bergkvist