Quella fu la mattina in cui Rosa scoprì che il Natale poteva essere spazzato via. Espulso, cancellato, estromesso a forza. Niente regali, niente albero, niente biscotti di cui ne rimaneva sempre uno mordicchiato a metà. Niente bicchiere di latte mezzo vuoto o carote per le renne. Era scomparso tutto, come se quella non fosse mai stata la mattina di Natale.
«Sei finita sulla lista dei cattivi», dichiarò la madre quando Rosa irruppe in cucina sconvolta. Non la guardò neppure, le dava le spalle rivolta ai fornelli.
«Perché?! Sono stata bravissima, come sempre», si difese Rosa annusando l’aria: profumava di latte caldo. Appena al latte si sarebbe unito l’aroma del cacao, lei non avrebbe più avuto dubbi che quella fosse sul serio la mattina di Natale.
«È il come sempre ad aver irritato il vecchio Babbo, mi sa», replicò la madre togliendo il pentolino dal fuoco e versando il latte in due tazze uguali per forma, diverse per colore. Blu notte per lei, gialla per Rosa.
«Papà!» Esclamò la bambina quando lo vide comparire in pigiama, i capelli ancora arruffati e il sonno negli occhi: «È sparito il Natale! Tutto! Dobbiamo ritrovarlo. Subito!»
«Oh Rosa», sospirò lui sbadigliando. «Niente Natale quindi? Mi sa che sei finita sulla lista sbagliata.»
La madre posò sul tavolo le due tazze a cui aggiunse un piatto ricolmo di biscotti. Con un gesto della mano invitò Rosa a prendere posto, ma la bambina fissava ora, con speranza, la sua tazza gialla fumante e il piatto di biscotti con le gocce di cioccolato: era ancora Natale, nonostante tutto. Quella era sempre stata la loro colazione speciale. Non poteva essere finita sulla lista dei cattivi, quindi, impossibile.
Rosa ripensò attentamente all’ultimo anno: cosa mai poteva aver fatto di così cattivo? Aveva tirato un pizzicotto a quel rompiscatole del cugino Gianluca, ma solo perché lui si ostinava a proclamarsi più alto di lei. Una bugia fatta e finita, sentenziava Rosa imperterrita: era lei quella più alta e, al contrario del cugino, non aveva bisogno di pettinarsi i capelli all’insù per dimostrarlo.
Cos’altro? Si chiese preoccupata. Era stato forse per le bugie? Piccole bugie, niente di paragonabile a quelle che raccontavano gli adulti, come quando la zia Brigida, appena conosciuti, aveva detto allo zio Antonello che adorava le scampagnate in montagna; poi, una volta sposati, lo aveva obbligato a scegliere: «O me o la tua cavolo di montagna!» E ormai lo zio Antonello, brontolava raccontandolo, si era messo quel dannato anello al dito – anello che gli era pure costato uno stipendio – e un’altra scelta non poteva mica più farla.
Niente da paragonare, rifletteva adesso Rosa, al suo innocuo fingersi malata per saltare un giorno di scuola o al professarsi innocente di fronte all’ennesimo soprammobile che si infrangeva a terra nell’irruenza del gioco.
La questione della famosa lista, decretava contrariata, era che i grandi la sfoderavano sempre per rimettere in riga i bambini, ma loro in realtà se ne infischiavano se ci finivano dentro. Tanto loro, gli adulti, se lo regalavano da soli il Natale, mica dovevano aspettare che il vecchio Babbo li degnasse di una visita. Si sceglievano quello che volevano e poi mandavano qualcuno a comprarglielo, per far finta che l’idea fosse venuta a quella persona, così da poter dire: «Oh come mi conosci bene!» oppure «Eh si vede che ci tieni, sei un tesoro.»
«Non è giusto», ribadì Rosa sdegnata. «E perché si sarebbe portato via anche l’albero? Poteva lasciarlo. Lui che se ne fa al Polo Nord? Non ne ha già uno tutto suo?»
«Il vecchio Babbo non fa sconti a nessuno: via il Natale, via tutto. E ora bevi il tuo latte e cacao prima che si freddi», sentenziò la madre mentre la cucina veniva inondata di un nuovo odore che solo gli adulti avrebbero potuto apprezzare, si disse Rosa storcendo il naso e pinzandosi le narici tra pollice e indice. La madre versò il caffè in una tazzina e la passò al padre. Tornarono insieme al tavolo e si sedettero. Erano tutti e tre in pigiama: un’altra prova che quella fosse, senza dubbio, la mattina di Natale. Nessuno, infatti, doveva affrettarsi per correre da qualche altra parte.
Rosa scosse la testa con decisione: ci doveva essere stato un errore e lei lo avrebbe dimostrato.
La madre allungò due dita per prendere un biscotto e tuffarlo nel latte.
«Forse un modo per riscattarti c’è», mormorò mentre si portava il biscotto alla bocca e lo mordeva piano. Rosa la fissò appoggiando una mano sul sedile in legno della sedia, l’altra sul tavolo, attendeva pronta ad accogliere qualunque sfida pur di ritrovare il Natale e far depennare il suo nome, per sempre, da quell’orrida lista.
«Siediti, per prima cosa», la invitò la madre indicandole la sedia e tornando poi a pescare nel piattino dei biscotti. Rosa si sedette controvoglia, seppur la tazza fosse invitante così come i biscotti ad appena un braccio da lei. Anche suo padre cedette alla tentazione e allungò una mano verso il piattino: Rosa temette che glieli potessero mangiare tutti così, avida, ne pinzò due insieme, li inzuppò nel latte e spalancò la bocca mostrando denti, lingua e giugulare a chiunque le fosse di fronte.
«Voracità e impazienza sono due motivi per cui potresti essere finita su quella lista», dichiarò la madre. Rosa richiuse la bocca di colpo, costringendosi a masticare piano prima di deglutire e poter chiedere: «Perché?»
Fu il padre a spiegare: «Ti sono piaciuti i due biscotti che hai buttato in bocca? Ne hai apprezzato il sapore?»
«Certo!» Mentì Rosa perché, in verità, le era quasi sembrato fossero più buoni quando stavano ancora nel piattino. Portò entrambe le mani alla tazza, la sollevò e bevve un lungo sorso di latte e cacao.
«Ed ecco un secondo motivo», disse la madre pescando un terzo biscotto.
«Quale? Non ho fatto niente ora.»
«Non sei onesta,» asserì il padre. «Oh quasi dimenticavo», aggiunse alzandosi. Uscì dalla cucina e vi rientrò subito dopo, una busta bianca in mano.
«È per te, credo l’abbia lasciata proprio il vecchio Babbo.»
«Impossibile», proclamò Rosa allungando la mano per prendere altri due biscotti. «Lui non scrive a nessuno, sono gli altri a scrivere a lui.»
«Prima di dire che è impossibile, leggila.» Il padre gliela porse e tornò a sedersi.
Era una busta sigillata e sul dorso recava nient’altro che un nome scritto in uno stampatello piccolo e irregolare: Rosa. Senza pensarci la bambina strappò la sommità della busta. I genitori la fissavano. Rosa capì che, forse, avrebbe dovuto fare più attenzione: quando estrasse il foglio che conteneva, si accorse di averne stracciato un angolo. Si chinò per raccogliere da terra il frammento di carta e lesse: il tuo vecchio Babbo N.
Ancora più scettica, tornò al foglio e iniziò a leggerlo in silenzio. Non riconobbe la grafia quindi non dovevano essere stati né sua madre né suo padre, né altri adulti della famiglia. Però era una grafia da vecchio, quello non si discuteva.
«Cosa dice?» Le chiese la madre curiosa.
«Niente, è per me.» Rosa si affrettò a riporre il foglio nella busta, nascondendola sotto al cuscino della sedia: con lei sopra nessun altro avrebbe potuto leggerla. Così c’era scritto: era una delle regole da rispettare, insieme a una lista di azioni che avrebbero permesso a Rosa di riavere il suo Natale.
«L’avete scritta voi?» Chiese guardinga. Doveva sincerarsi che loro non c’entrassero niente, che non sapessero niente.
La madre lanciò un’occhiata al padre, meravigliata, poi entrambi tornarono a guardare la figlia, negando.
«Ok, allora facciamo finta che l’ha scritta il vecchio Babbo.»
«Deve averla per forza scritta lui, non c’è altra spiegazione», sostenne il padre.
«Non so.» Rosa continuava a lanciar loro occhiate sospettose. «Potreste sempre averla fatta scrivere voi.»
«E a chi?»
Rosa fece spallucce, poi si affrettò a bere quanto restava del suo latte e cacao, ormai tiepido. Il latte aveva già bagnato le sue labbra, quando lei sembrò ripensarci. Allontanò piano la tazza e disse: «A chiunque.» Poi, senza fretta, se la riportò alla bocca e sorseggiò l’ultimo dito di latte e cacao. Anche se tiepido rimaneva delizioso. «Conoscete tante persone.»
Prese poi un ultimo biscotto. Si soffermò a osservarlo. Lo annusò. Che strano, rifletté, sapeva di cioccolato e burro, non ci aveva mai fatto caso. Poi lo addentò: era morbido, anche il sapore era di burro e cioccolato, ma non solo, conservava un lieve retrogusto di spezie. Rosa masticò piano, gustandosi fino all’ultimo pezzetto.
Il padre e la madre si alzarono, ciascuno portando via la propria tazza o tazzina e posandole nel lavello. La madre prese poi il piattino, lo sollevò in aria e si rivolse a Rosa: «Ne vuoi ancora uno?» Rosa fece per allungare la mano, ma sembrò ripensarci e scosse la testa. «Dopo magari», disse speranzosa e la madre annuì con un sorriso. Sul tavolo rimase solo la tazza gialla, ormai vuota, e Rosa seduta di fronte a lei.
«Quindi oggi è un giorno come un altro», sentenziò il padre. «Niente lasagne.»
«Niente arrosto con patate», gli fece eco la madre.
«Niente panettone.»
«Niente regali.»
Rosa si alzò di scatto. «Assolutamente no! Farò tornare il Natale in tempo», dichiarò perentoria. Dipendeva da lei, il vecchio Babbo era stato chiaro nella lettera: poteva rimediare. Le aveva elencato le sue “azioni non proprio meritorie”, così aveva scritto, il che voleva dire, aveva anche spiegato perché lei comprendesse, che non potevano dirsi del tutto cattive, ma neppure buone. Buone non solo per gli altri, aveva specificato, ma soprattutto buone per te. E poi le aveva fornito alcuni suggerimenti per trasformare quelle azioni non del tutto cattive, in buone, buone per lei.
Il primo punto nella lista era la colazione: la sua abitudine di bere e mangiare in fretta, anche la mattina di Natale, perché c’era sempre qualcos’altro da fare o perché qualcuno avrebbe potuto bere o mangiare di più di lei. Quell’abitudine, aveva scritto il vecchio Babbo, le precludeva la possibilità di gustarsi anche le cose più buone.
Peccato che suo padre non si fosse ricordato prima della lettera, si era rammaricata Rosa: a quel punto lei si era salvata per un soffio gustandosi l’ultimo sorso di latte e sgranocchiando con calma l’ultimo biscotto.
Poi, terzo punto nella lista, la sua camera: Rosa non era una bambina disordinata o disobbediente, quanto più brontolona. Se doveva rimettere i giocattoli nei loro contenitori o sugli scaffali della libreria, si trasformava in una vecchia ciminiera e sbuffava, sbuffava. Quando poi si era stancata di sbuffare, si trasformava in una caffettiera, una simile a quella da cui, borbottando, ogni mattina usciva il puzzolente caffè del padre. E come quella caffettiera, anche Rosa brontolava e brontolava.
Quella mattina, però, dopo la colazione, quando sua madre si presentò sulla soglia della camera per aiutarla a rifare il letto, Rosa accettò l’aiuto con un sorriso. Sollevarono il lenzuolo insieme, lei da una parte, la madre dall’altra. Poi la coperta e infine il piumino. Finito. Rosa non si lasciò sfuggire neppure uno sbuffo o un lieve borbottio.
La madre la fissò con un misto di sorpresa e curiosità: «Non è stato più divertente così?» Le chiese e Rosa, per quanto lei considerasse ben altro divertente, non potè negare che fosse stato meglio così, senza che il cattivo umore prendesse il sopravvento.
A quel punto, Rosa si era già lavata e vestita, vietandosi anche lì di sbuffare e lamentarsi, nonostante per lei non ci fosse niente di più noioso al mondo, soprattuto la mattina di Natale. Purtroppo, quella mattina il Natale era sparito e con lui i regali, quindi, si era detta Rosa, non c’era niente di meglio da fare se non lavarsi e vestirsi con calma. Era quello il secondo punto sulla lista. Ne restava un ultimo.
Rosa raggiunse il padre in salotto. Era seduto sulla sua poltrona, quella proibita a chiunque altro, soprattutto a lei che, da piccola, adorava saltare su ogni tipo di superficie morbida sia che fosse un materasso, un divano o una vietatissima poltrona.
«Papà», lo chiamò incerta. A suo padre dava fastidio anche essere disturbato quando teneva un libro in mano: l’aveva ammonita di non interromperlo in continuazione. «Mi aiuti a fare una cosa? È importante.»
«Dipende da cosa si tratta.» Rosa gli si avvicinò, posò entrambe le mani sul bracciolo in pelle morbida e gli spiegò, parola per parola, il quarto e ultimo punto della lista.
«Ah!» Esclamò il padre ridendo. «Quel vecchio birbante! Quindi non l’ha fatto sparire, l’ha solo rimesso al suo posto.» Richiuse con calma il libro che aveva in mano, dopo essersi assicurato di ritrovare la pagina lasciata in sospeso, e aggiunse conciliante: «Ok, andiamo.»
Guidò Rosa in garage dove ritrovarono l’albero imballato nella sua ormai logora scatola di cartone, così come tutte le decorazioni ordinate nelle rispettive scatole. Riportarono tutto in salotto e poi chiesero aiuto alla madre per decorare nuovamente l’albero. Fu il padre a sistemarlo sul suo piedistallo, in un angolo del salotto, e questa volta Rosa fece attenzione a ogni singolo passaggio: aiutò prima suo padre a far passare le luci tutt’intorno. Quando poi lui tornò a sedersi sulla poltrona, Rosa si occupò degli addobbi con la madre: le stelle filanti blu, oro e argento, le palline e le decorazioni che, nel corso degli anni, avevano collezionato insieme. C’erano anche quelle create da sua madre e da lei quando Rosa era più piccola e ancora pensava di aver tempo per quelle cose. Mentre sua madre le tirava fuori dalle scatole e gliele passava, continuava a chiederle: «Oh questa te la ricordi? Quando l’hai fatta? Avevi cinque anni mi pare.»
Rosa prendeva la decorazione, la osservava e anche lei ricordava, non sempre e non tutto nei particolari, ma qualche ricordo tornava. E mentre l’appendeva all’albero, ritrovava il piacere che aveva provato nel crearla.
«È stato bello», mormorò Rosa voltandosi per accogliere una nuova decorazione.
«Allora potremmo rifarlo il prossimo anno», propose la madre. «Se non credi di essere troppo grande.»
Rosa sembrò rifletterci. «Forse no, non lo sono ancora, forse il prossimo anno si può fare. Oppure…» guardò sua madre come folgorata da un’illuminazione: «Facciamone una adesso! Dopo aver finito l’albero. Una nuova, anzi due nuove, anzi tre!» E Rosa si appoggiò al bracciolo della poltrona per richiamare l’attenzione del padre.
«Io?»
La bambina confermò con la testa. «Sì! Insieme. Sarà bello.»
Il padre acconsentì, seppur all’inizio riluttante. Terminato l’albero, raggiunsero la cucina dove Rosa aveva sistemato fogli e colori sul tavolo. C’erano matite colorate, pastelli e pennarelli. Ciascuno prese un foglio, vi tracciò al centro un cerchio e, dentro al cerchio, iniziarono a disegnare qualunque cosa venisse loro in mente. Poi colorarono e, alla fine, i cerchi furono ritagliati, incollati su un cartoncino anch’esso rotondo, della stessa dimensione dei cerchi. Il padre si occupò di realizzare un foro alla sommità di ciascun cerchio e la madre di aggiungervi un piccolo filo di lana, annodato all’estremità. Infine, tutti e tre rimirarono le rispettive palline personalizzate per l’albero di Natale.
«Non male», commentò il padre. «Anche per uno poco creativo come me.»
«Papà», esclamò Rosa. «Sono bellissime!»
Infine, tornarono in salotto e ciascuno appese la propria creazione. Rosa all’improvviso si volse verso i genitori, ora a destra, verso la madre, ora a sinistra, verso il padre, e con un sorriso entusiasta dichiarò di aver capito.
«Capito cosa?» Chiese il padre, ma Rosa non aggiunse altro. Rimase a rimirare l’albero di Natale redivivo di fronte a lei. Vi restarono per un po’ tutti e tre, in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri. Le luci colorate, che si accendevano e spegnevano a intermittenza, si riverberavano nei loro sguardi. Rosa non emise un solo sbuffo, un solo brontolio, non corse via perché c’era qualcosa di più interessante da fare, anche lei si lasciò conquistare da quell’unico momento.
Poi la madre disse: «Chissà se adesso il Natale è tornato, come facciamo a saperlo?»
Rosa si volse a guardarla: «Io penso di sì.»
«Ma mancano i regali», intervenne il padre, sempre fissando Rosa. Lei portò quindi lo sguardo verso la base dell’albero: era vuota in effetti. Scosse piano la testa e mormorò: «Se il Natale è tornato forse il vecchio Babbo li porta questa notte, magari fa così con i bambini finiti sulla sua lista dei cattivi.»
Poi guardò di nuovo a turno, ora il padre ora la madre, e aggiunse: «Ma noi possiamo fare finta che è già così: oggi è Natale!»
Entrambi i genitori concordarono, poi Rosa aiutò la madre a sistemare il tavolo rimettendo in ordine fogli e colori.
Quel pranzo di Natale fu il più tranquillo e delizioso di sempre per Rosa. Non corse, non trangugiò, assaporò. Con i suoi genitori rise e ricordò tutte le cose belle e divertenti dell’anno appena trascorso. Nel pomeriggio gli zii e il cugino Gianluca passarono a trovarli. Gianluca si sorprese nello scoprire che Rosa non aveva ricevuto neppure un regalo.
«Arriveranno», lo rassicurò. Poi si misero a giocare scegliendo tra i vecchi giochi di Rosa: ne scelsero uno a testa e, mescolandoli, ne crearono uno nuovo, mentre padre, madre e zii chiacchieravano in salotto, davanti al luccicante albero di Natale.
«Quindi sei finita nella lista dei cattivi? Ma non è possibile, lo sanno tutti che…» disse Gianluca dopo che Rosa gli spiegò il motivo dell’assenza di regali.
«Nessuno sa niente», lo interruppe lei decisa. «Non lo so io e non lo sai nemmeno tu. Anzi, io ora una cosa la so», concluse abbozzando un sorriso complice. «Non è poi tanto male finire sulla lista dei cattivi.»
«Ah no? E perché mai?»
Il sorriso aleggiava ancora sulle labbra di Rosa quando si avvicinò a Gianluca, con fare cospiratorio, e per non farsi sentire dagli adulti, bisbigliò: «Perché quando poi cerchi di tornare sulla lista dei buoni, ti diverti pure.»
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Immagine in apertura di Alicia Slough